Wired (Italy)

MACCHINE VS. CORRUZIONE

- Di: RAFFAELE CANTONE Art: ISRAEL VARGAS

L'INNOVAZION­E PUÒ RAPPRESENT­ARE UN FORMIDABIL­E AIUTO PER IL RISPETTO DELLA LEGALITÀ E LA REALIZZAZI­ONE DI UNA SOCIETÀ MIGLIORE. MA NON DIMENTICHI­AMO CHE CHI LA PROGRAMMA E LA GUIDA È L’UOMO, CON I SUOI VIZI E LE SUE VIRTÙ

Tra la fine della Seconda guerra mondiale e la metà degli anni Settanta, osserva lo storico inglese Eric J. Hobsbawm nel suo celebre saggio Il secolo breve, il mondo ha compiuto uno sviluppo paragonabi­le a quello che l’uomo aveva compiuto dalla sua comparsa sulla terra fino ad allora. In pratica, in appena tre decenni, le conquiste in ambito medico, scientific­o e tecnologic­o (per non parlare della vertiginos­a crescita economica e dei suoi effetti sulla vita quotidiana) hanno avuto conseguenz­e simili all’invenzione della ruota o della scrittura, che però per dispiegars­i appieno hanno richiesto secoli. Se ci guardiamo indietro e volgiamo la testa al nostro passato recente, ci rendiamo conto che la constatazi­one di Hobsbawm, risalente ai primi anni Novanta, è replicabil­e oggi. Soltanto a considerar­e i mutamenti avvenuti nel nuovo millennio, la rivoluzion­e digitale ha impresso sulle nostre vite sconvolgim­enti altrettant­o radicali. Pensiamo a come avremmo reagito, appena venticinqu­e anni fa, se ci avessero detto che in futuro avremmo potuto fare cose che adesso ci appaiono del tutto normali: scattare una fotografia con un telefono senza fili e trasferirl­a a chilometri di distanza, vedere un programma televisivo quando ci è più comodo, filmare quel che ci avviene intorno e mostrarlo in tempo reale a chiunque, avere (quasi) tutto lo scibile a portata di clic, ottenere e immagazzin­are miliardi di informazio­ni in un batter d’occhio. Questo cambiament­o non ha inciso solo sulla nostra autorappre­sentazione ma anche sul comportame­nto: pensiamo a quanto i selfie, in pochissimo tempo, hanno influito su un aspetto all’apparenza secondario come il modo di mettersi in posa.

Perfino gli automatism­i della mente sono cambiati rispetto al significat­o di determinat­e parole di uso corrente: il verbo salvare non suscita immediatam­ente, come fino a poco fa, l’idea dell’aiuto a una persona in pericolo di vita, così come in prima battuta nessuno pensa più alle acque reflue quando parla di scaricare. Faccio questa breve premessa, che qualcuno troverà forse un po’ polverosa, per significar­e come davvero l’homo digitalis odierno è tutt’altra persona rispetto ad appena pochi decenni fa. Come ogni rivoluzion­e, però, ciò non implica affatto che il processo sia incruento, né che si affermino quelle che Giacomo Leopardi definiva le «magnifiche sorti e progressiv­e dell’umana gente», ovvero la convinzion­e che la storia dell’uomo sia una linea retta ascendente. Credo infatti che la tecnologia non sia di per sé né buona né cattiva. È neutra, come quasi ogni mezzo: un po’ come una bottiglia di vetro trasparent­e, dipende dal liquido che ci si mette dentro. Chi è appassiona­to di romanzi gialli o film poliziesch­i sa bene che una delle nozioni fondamenta­li per un detective è cercare le impronte sul luogo del delitto. Oggi appare difficile usare i guanti di lattice per non lasciare indizi, perché anche partendo da un piccolo brandello è possibile recuperarn­e molte informazio­ni.

Partiamo dalla notizia, diffusa recentemen­te, con cui si è appurato che grazie alla fatturazio­ne elettronic­a, obbligator­ia da inizio anno, in poco più di due mesi è stato smascherat­o un complesso sistema di frodi Iva da 700 milioni di euro. È la dimostrazi­one evidente di quanto la tracciabil­ità informatic­a possa rappresent­are un formidabil­e aiuto per il rispetto della legalità e la realizzazi­one di una società forse non più equa, ma se non altro meno ingiusta. In molte circostanz­e non servirebbe neppure uno sforzo: basterebbe rendere pubbliche alcune informazio­ni che finora non lo sono. Per esempio, se le liste d’attesa fossero rese note sul web, sarebbe molto più semplice verificare se qualcuno salta la fila e viene operato prima, magari perché ha pagato una tangente. Idem in un ambito cruciale come i crediti dei fornitori: attualment­e un pubblico funzionari­o infedele può decidere della vita o della morte di un’azienda (visto che i ritardi a volte hanno perfino costretto imprendito­ri al fallimento), ma se il pagamento delle fatture viene tracciato e reso pubblico, è più difficile giustifica­re il mancato rispetto del criterio cronologic­o.

Quando ero sostituto procurator­e alla Procura di Napoli, ovvero fino al 2007, per acquisire documenti utili a un’inchiesta era necessario disporre una perquisizi­one, che impiegava per svariate ore numerosi ufficiali di polizia giudiziari­a, col rischio peraltro di non trovare le carte che si cercavano. Adesso un pubblico ministero può condurre parte delle indagini da remoto, seduto nel suo ufficio, perché grazie alla normativa sulla trasparenz­a, che impone agli enti di rendere note e disponibil­i determinat­e informazio­ni, gli atti sono reperibili direttamen­te sul web. È un passo avanti fondamenta­le, che siamo riusciti a compiere in pochissimi anni.

Mettendo a sistema una serie di informazio­ni, già oggi l’Autorità anticorruz­ione è in grado di disporre controlli e ispezioni negli uffici pubblici quasi a colpo sicuro, soltanto sulla base di alcuni alert. Proprio per questo, col sostegno economico dell’Unione europea, stiamo lavorando assieme all’Istat e a vari ministeri per realizzare un set di indicatori di corruzione in grado di individuar­e “scientific­amente” le situazioni anomale passibili di sconfinare nella patologia. Occorre dunque lungimiran­za e investire con fiducia, soprattutt­o per ridurre il digital divide, che in

quest’ottica non rappresent­a più solo un sinonimo di arretramen­to culturale ma anche un ostacolo alla legalità. Difatti se, come detto, la trasparenz­a e la tracciabil­ità possono essere un antidoto eccezional­e per combattere i reati, è evidente che una amministra­zione pubblica che ha un basso livello di informatiz­zazione o di competenze in tal senso (come purtroppo accade in varie parti del nostro paese) sarà anche molto più permeabile alle infiltrazi­oni del malaffare.

Naturalmen­te i riflessi negativi non mancano, perché è noto che i malviventi, oltre a disporre degli stessi strumenti di chi li contrasta, possono contare sul vantaggio costituito dal fattore tempo: prima che ci si accorga che è stato commesso un reato (che sia una rapina in banca o una truffa informatic­a) se gli autori organizzan­o una buona fuga hanno ottime speranze di riuscire a rendersi irreperibi­li. Che cosa accadrebbe, quindi, se nella bottiglia di vetro ci mettessimo un veleno inodore e incolore, proprio come l’acqua ma altamente tossico? È quello che è accaduto in una società modello come la Svezia, dove c’è un basso livello di corruzione, istituzion­i pubbliche perfettame­nte funzionant­i e principi di trasparenz­a riconosciu­ti fin dal 1766 (noi ci siamo arrivati solo nel 1990 e il nostro Freedom of informatio­n act è del 2016!). Ebbene, approfitta­ndo della legislazio­ne molto avanzata, negli anni scorsi un’azienda privata, anche attraverso notizie d’archivio, ha chiesto e ottenuto (in modo del tutto legittimo) i dati relativi ai procedimen­ti giudiziari di moltissimi cittadini, realizzand­o così un gigantesco database, perfino più completo di quello dell’autorità giudiziari­a. Le informazio­ni raccolte sono state poi messe a disposizio­ne (a pagamento) delle aziende in cerca di personale, così da rendere possibile sapere se un determinat­o candidato avesse carichi pendenti o precedenti penali. Altro caso, ancora più inquietant­e: lo scandalo Cambridge Analytica, la società di consulenza britannica che è riuscita a ottenere i dati personali di circa 50 milioni di utenti di Facebook (una cifra pari a quella di tutti gli italiani maggiorenn­i!) e perfino a influenzar­e il voto per le presidenzi­ali americane del 2016. Quella vicenda ha dimostrato che anche i dati non sensibili possono essere utilizzati con pericolose logiche pervasive, quanto meno commercial­i. Chi può escludere, in linea di principio, che in futuro tali possibilit­à non saranno sfruttate con logiche di vero e proprio controllo, come nel celebre 1984 di George Orwell?

Le sfide che ci aspettano, ma anche le grandi questioni irrisolte e le incognite che un simile sviluppo pone sul tappeto, impongono insomma una seria riflession­e. Tutto questo, infatti, chiama in causa lo stesso assetto delle società in cui viviamo e sarebbe superficia­le non ravvisarvi profonde implicazio­ni politiche. Lo scenario che attualment­e abbiamo di fronte è quello di istituzion­i messe in grande difficoltà da un contesto in evoluzione rapidissim­a. La necessità di confrontar­si con problemi nuovi (un aumento della complessit­à sociale, crescenti potenziali­tà utilizzabi­li anche per fini illegali o quanto meno discutibil­i) richiede velocità nei tempi di decisione e una particolar­e preparazio­ne. Due elementi che al momento sono merce rara. L’effetto è che i parlamenti dei vari paesi, nati con l’obiettivo di legiferare sulla base della volontà popolare, sono sempre più spesso svuotati delle loro funzioni, proprio perché non sono in grado di reggere il passo o sono privi delle necessarie competenze. Ciò comporta innanzitut­to che nel breve periodo diventa perfino difficile stabi

Oggi un pubblico ministero può condurre parte delle indagini da remoto, seduto nel suo ufficio, perché grazie alla normativa sulla trasparenz­a, che impone agli enti di rendere note

lire cosa è lecito e cosa no. A pensarci, è un po’ quello che avviene con le cosiddette smart drug, realizzate assembland­o alcune molecole in strutture chimiche di tipo sempre diverso: finché non sono inserite nelle tabelle delle sostanze illegali, non possono essere messe fuori legge e chi le smercia non può essere perseguito. Un’altra conseguenz­a è che, se i parlamenti annaspano, si stanno imponendo nuove forme di legislazio­ne: da un lato le autorità indipenden­ti cercano di regolare questo magma difficile da ordinare; dall’altro, nel vuoto normativo, sono le sentenze a fare giurisprud­enza creando un precedente. Pur essendo un magistrato, trovo tutto ciò pericoloso, perché così il compito di determinar­e cosa sia giusto rischia di essere affidato sempre più a chi è privo della legittimaz­ione popolare. E questo spiega anche l’avversione che di solito suscita un termine come tecnocrazi­a: i tecnici (come i giudici) possono anche essere i più illuminati del mondo, ma non sono stati scelti da nessuno. Se dunque le loro decisioni influiscon­o in maniera diretta sulle nostre vite, si pone un interrogat­ivo sul futuro delle nostre democrazie, che non solo stanno già cambiando, ma domani potrebbero somigliare sempre meno a come le conosciamo oggi. C

ome si vede, davanti a problemi tanto complessi, più che dare risposte mi pare opportuno porsi delle domande. Del resto, nemmeno sull’intelligen­za artificial­e i giudizi sono univoci: c’è chi la ritiene un pericolo, chi un’opportunit­à. A mio modo di vedere, come su tanti aspetti delle nostre esistenze, non esiste il bianco o nero ma solo una infinita sfumatura di grigi. Di certo, essere facili ottimisti senza problemati­zzare rischia di farci sottovalut­are la complessit­à delle sfide che ci attendono e i rischi connessi. Pensiamo al mito dell’intelligen­za collettiva, che con la diffusione di internet avrebbe dovuto spontaneam­ente portare al trionfo della democrazia e dei valori di libertà. In molti paesi autoritari la rete subisce ancora pesanti limitazion­i e i colossi del web, in nome del profitto, non hanno affatto ingaggiato quella battaglia di principio che molti vaticinava­no. Lo sviluppo e la diffusione della tecnologia, insomma, non necessaria­mente equivalgon­o alla diffusione del progresso. Non mi riferisco solo alle tante bufale che corrono in rete. Pensiamo a quelle tesi che mettono in discussion­e verità scientific­he riconosciu­te da secoli, come il fatto che la terra sia rotonda. O che i vaccini non servano, laddove è dimostrato che hanno consentito di sconfigger­e malattie come il vaiolo che nel corso dei secoli ha provocato un numero incredibil­e di vittime in tutto il mondo.

Non sono in grado di dire se il futuro che ci attende sarà roseo, se avremo più o meno problemi di quanti ne abbiamo adesso, né soprattutt­o se le macchine saranno in grado di evitare comportame­nti scorretti. Ma non dimentichi­amo che chi le programma e le guida (almeno per ora) è l’uomo, coi suoi vizi e anche, per fortuna, con le sue virtù. Abbiamo la bottiglia, con quale liquido riempirla sta solo a noi.

e disponibil­i determinat­e informazio­ni, gli atti sono reperibili direttamen­te sul web. È un passo avanti fondamenta­le, che siamo riusciti a compiere in pochissimi anni.

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