PASSATO/ FUTURO
NELL’INCERTEZZA DI QUELLO CHE SUCCEDERÀ, TENDIAMO CICLICAMENTE A RIFUGIARCI NELLA NOSTRA STORIA, IN UNA DIMENSIONE MITOLOGICA CHE CI SEMBRA CAPACE DI RISPONDERE ALLE ESIGENZE DI DOMANI. MA PER AFFRONTARE LE NUOVE SFIDE SERVE UNA RIFONDAZIONE CULTURALE PIÙ CHE UN’OPERAZIONE NOSTALGIA
Voglia di futuro e nostalgia di passato. È la strana coppia che popola l’immaginario diffuso, almeno in questa porzione di mondo che si chiama Europa. In generale, questa condizione deriva dal fatto che non riusciamo più a “pensare futuro” (forse lo immaginiamo, magari con una proiezione da fantascienza), perché non riusciamo più a fare tre cose. La prima: pensiamo che futuro sia solo soddisfazione di ciò che non funziona (in questo senso confondiamo futuro con utopia, con sogno utopico), per cui il domani è solo immaginario di cose che funzionano perfettamente e soprattutto è assenza di problemi. La seconda: pensare al futuro implica prendersi responsabilità, correre rischi, scegliere e, soprattutto, ragionare non in termini di soddisfazione immediata per noi, ma come investimento per le prossime generazioni. Discende da qui la difficoltà a pensare e a mettere in atto le pratiche volte alla sostenibilità a partire dalla convinzione che lo sviluppo non è più infinito, ma la sua qualità dipende strettamente dalle scelte di comportamento (nei consumi, prima di tutto, ma non solo lì) che saremo in grado di mettere in pratica. Ci tornerò più avanti. La terza ragione: abbiamo maturato un senso di frustrazione, rivendicazione e rabbia, per cui l’unica cosa che ci affascina è il riparare ai torti che abbiamo subito (o che diciamo di aver subito) e dunque abbiamo un rapporto di rivendicazione sul passato prossimo, l’unica piattaforma con cui riusciamo a pensare al futuro, che così risulta ridotto alla quotidianità.
Gli europei cercano di governare il futuro, trattenendolo. Chi fugge da paesi desolati vuole entrare a far parte del futuro, abbandonando il proprio senza rimpianti.
I l risultato è, comunque, il rimpianto per le cose non scelte nel passato, per i torti subiti, l’ansia di individuare un colpevole, il fascino per le teorie complottistiche che spiegano armonicamente il passato per immaginare un futuro felice, che tuttavia viene progettato come un 1984 orwelliano. Oppure si prospetta un ritorno al passato come nostalgia, un passato per di più costruito sulla narrazione di bufale, ovvero immaginato, più che reale. Un passato felice che nella sua dimensione di felicità non è mai esistito. Un futuro raccontato per di più come riscatto da un passato popolato di complotti che dei perfidi Robinson (insomma dei cattivi orchi) avrebbero tramato contro il popolo di Venerdì.
Il tema è quello della forza del mito, della narrazione e della macchina mitologica, della lettura del reale attraverso l’immaginario complottistico, su cui negli anni Settanta aveva lavorato Furio Jesi, un filone di ricerca che in questi anni è stato ripreso e riproposto opportunamente da Enrico Manera e Andrea Cavalletti. E che in Francia è al centro della ricerca di Yves Citton (di cui si veda il suo Mitocrazia, Alegre, 2013).
Ha detto Zygmunt Bauman nel suo Retrotopia (Laterza, 2017) che il mondo non potendo pensare futuro, preferisce immaginare passato. È una buona fotografia, ma come tutti i fermoimmagine, se ci restituisce l’istantanea di un momento, non ci illumina sul senso e sul perché di un percorso. Per comprenderlo occorre affrontare un cammino carico di molte domande. Qui provo a riflettere almeno su due. La prima: questa paura del futuro riguarda tutti o è geolocalizzata? La mia risposta è che è geolocalizzata e che essenzialmente riguarda l’Europa. La seconda: non riusciamo a pensare futuro o preferiamo auspicare passato? La mia risposta, in parte in divergenza con quella proposta da Bauman, è che non stiamo costruendo meccanismi culturali per immaginare o, più propriamente, per desiderare futuro. V
eniamo alla prima questione. Se diamo uno sguardo alla geografia dei sentimenti si dovrà convenire che siamo calati in un tempo in cui il futuro è più temuto che non auspicato o sognato. Questo almeno qui, in questa porzione di mondo, più o meno corrispondente all’Europa (o a quella parte di Europa coincidente con la cosiddetta porzione «atlantica del continente»). Il futuro appare come un destabilizzatore o come un perturbatore del quadro dato. In altri termini, nel nostro tempo, e nella porzione di spazio dell’Europa che tradizionalmente siamo abituati a denominare industrializzata, avanzata, comunque sviluppata, pensare futuro sembra coincidere con cercare di tenere le briglie molto salde sul presente perché potrebbe sfuggirci di mano. Prospettiva molto diversa da quella che per certi aspetti riguarda i luoghi della desolazione del pianeta (quelli da cui in gran parte si originano i flussi di spostamento migratorio attualmente in atto). Difficile pensare che per quei soggetti il presente sia comunque una condizione da salvaguardare. Più facile pensare che quello spostamento massiccio indichi una volontà di speranza volta al futuro (non auspicato, ma certo comunque non eguale al momento vissuto attualmente). Per questi attori che si presentano alle soglie del nostro mercato (più propriamente che hanno tentato di varcare il confine del nostro spazio), il futuro è la sola possibilità che hanno per provarci. Ancora diversa la proiezione, immagino, del domani proprio di una porzione di mondo come quella cinese, per la
I cinesi vogliono invece rafforzarlo investendo nel presente, convinti che questo sia il migliore dei mondi possibili e certifichi la propria aspirazione al dominio.
quale il futuro è un investimento di azione ripetuta del presente attuale, che sembra il migliore dei mondi possibili.
Dunque, tre percorsi di vissuti che si confrontano nel presente: i primi per governarlo, trattenendolo; i secondi per entrare a farne parte abbandonando, senza rimpianti, il proprio; i terzi rafforzandolo perché convinti che questo presente certifichi la propria aspirazione al dominio. Rimango ancora sul primo percorso. Perché l’immagine del futuro spaventa noi europei? Si potrebbe dire perché per la prima volta in forma consapevole noi stiamo sperimentando la marginalità dell’Europa. Più precisamente: più che l’irrilevanza, la subalternità. Il futuro ci riguarda ma come attori passivi, comunque non come decisori. Per questo abbiamo nostalgia, perché quel sentimento indica una diversa condizione. Da dove nasce quella condizione e, soprattutto, è una condizione che scopriamo e sperimentiamo solo ora? Pensare l’Europa come progetto politico e culturale, già all’indomani del Primo conflitto mondiale, ma soprattutto nell’epoca della crisi del bipolarismo (e dunque a partire dagli anni Settanta), è un concetto che si è presentato più volte all’orizzonte. Ogni volta non riuscendo a produrre un risultato capace di assumere le sfide del proprio tempo. O
gni volta che si è presentata quella scena in Europa abbiamo parlato di identità. Un percorso che si sta ripetendo ancora oggi e che ancora sarà all’ordine del giorno qualunque sia la composizione del prossimo Parlamento Ue. Una condizione che è la «spia indiziaria » di un vizio costante: il venir meno alle scelte che il tempo politico propone. Condizione la cui origine, oggi, sta nella ritrosia a prendere in carica le sfide indotte dal processo di globalizzazione. Una ritrosia che ha una lunga tradizione nella storia dell’Europa del ’900. Infatti, ogni volta il tema è stato il conflitto tra diritti e doveri, spesso scegliendo i primi in nome della felicità. Comunque, in nome della «tranquillità». Ovvero di ciò che «non faceva problema». La conseguenza ogni volta è stata una cultura politica dell’emergenza, da cui la convinzione sempre più profonda nel senso comune di una condizione di «ricatto», oppure di «complotto» cui l’Europa sarebbe vittima. Condizione che produce un’ossessione dell’idea di Europa dove contemporaneamente le sfide del tempo, che chiedevano scelte, venivano respinte in nome del tempo corto del benessere, ma senza una prospettiva di futuro.
Non abbiamo molto tempo davanti a noi. Non solo per noi. Gli stipiti stretti della porta di accesso al futuro, ci dicono tutti coloro che si occupano di risorse e di sviluppo, non solo sono una restrizione dell’idea di sviluppo come estensione all’infinito di pratiche, ma hanno anche un tempo. Abbiamo circa un decennio per cambiare radicalmente rotta. In quel cambiamento, sta prima di tutto l’idea che cambiare regolando i comportamenti non è mortificazione, o subire il ricatto di qualcuno che minaccia il nostro benessere, bensì qualcuno che pensa che, se c’è un benessere da distribuire, questo non solo vada distribuito diversamente, ma equamente. È il profilo che ha delineato l’economista Enrico Giovannini nel suo L’utopia sostenibile (Laterza, 2018). Dentro sta una certa idea di Europa, che non sembra al centro del nostro profilo pubblico. Per concludere su questo primo punto chiediamoci: siamo attratti dal presente? Anche questo è vero solo in parte. Ha osservato il filosofo