Wired (Italy)

La resistenza minore

- di Francesco Guala art Eva Lake

Spesso, chi gode di un potere contrattua­le e di un accesso alle istituzion­i ridotti non può opporsi alle scelte politiche e finisce per pagare i costi più alti. Nel caso dell’emergenza Covid, sono stati i giovani, penalizzat­i in Italia più che in altri paesi. E privati di un importante capitale di educazione, sport e socialità.

Con conseguenz­e nel lungo periodo

Governi e parlamenti operano le loro scelte seguendo meccanismi più complessi di quanto si creda, specie in situazioni di crisi. Sentiamo spesso dire che la priorità di una società civile è salvare il maggior numero di vite possibili. Ma non è così. Una strategia del genere implichere­bbe violazioni dei diritti dei cittadini e intrusioni nelle libertà personali che nessuno di noi sarebbe disposto ad accettare. Senza considerar­e che i costi economici sarebbero enormi. La verità è che le democrazie di tutto il mondo, di fronte all’emergenza Covid, hanno cercato di trovare un punto di equilibrio tra i costi umani da un lato e i danni causati dalle politiche di contenimen­to dall’altro. In altri termini, hanno accettato un numero maggiore di morti in cambio di meno disagi. Diversi modi di concepire il problema portano naturalmen­te a diversi equilibri. In una pandemia, per esempio, si possono pensare le chiusure e le restrizion­i come funzionali a garantire l’operativit­à del sistema sanitario. Oppure si può pensare al sistema sanitario come funzionale a garantire l’operativit­à delle altre istituzion­i. Il nostro paese ha optato per la prima ipotesi. E la ragione, forse, è che chiedere alla popolazion­e di stare a casa, prevedere misure come il coprifuoco e chiudere le scuole può essere più facile che riorganizz­are la sanità in tempi rapidi. Senza contare che è più agevole presentare una crisi solo come emergenza pandemica, piuttosto che ammettere che una parte del problema consiste in un’inadeguata gestione del sistema della sanità pubblica. Che, poi, è il caso dell’italia, dove la centralizz­azione delle cure negli ospedali a scapito di un’assistenza diffusa sul territorio si è rivelata inefficace al fine di tracciare e combattere il virus.

Le decisioni operate dai governi democratic­i sono sempre il risultato di aggiustame­nti e compromess­i – raggiunti anche grazie all’ascolto dei rappresent­anti delle categorie e dei cittadini – e costituisc­ono la sintesi di tante micro esigenze e dei rapporti di forza in gioco. Ma questo significa anche che, spesso, la politica finisce per prendere quella che potremmo chiamare la via della “resistenza minore”. In altri termini, chi ha minor potere contrattua­le, o solo minore accesso alle istituzion­i, finisce per pagare i costi più alti. Proprio la via della resistenza minore spiega le scelte nei confronti dei giovani durante l’emergenza Covid, decisioni che non erano obbligate e neppure scontate, come risulta evidente da un confronto con altre nazioni. Siamo il paese, in Europa, che ha tenuto le scuole chiuse più a lungo nella prima metà del 2020, e uno dei primi a richiuderl­e lo scorso autunno, anche perché non siamo stati in grado di riorganizz­are il trasporto pubblico. In altre nazioni si è già cominciato a fare un’analisi di alcune delle ricadute dell’emergenza sulle nuove generazion­i. Belgio e Olanda hanno pubblicato dati statistici sul rendimento scolastico degli studenti dall’inizio della pandemia. I risultati sono prevedibil­i, ma anche preoccupan­ti. Chi aveva un rendimento scarso prima dell’inizio dell’emergenza, con la Dad (didattica a distanza, ndr) ha subito un peggiorame­nto dei livelli di apprendime­nto molto più significat­ivo rispetto a chi, invece, aveva buoni risultati. In Italia non sappiamo quali siano stati gli effetti. Anche il fatto di non voler testare le conseguenz­e della Dad non è forse casuale, considerat­o che, da noi, la misurazion­e del rendimento incontra da sempre notevoli resistenze. Detto questo, è piuttosto prevedibil­e che nelle fasce di popolazion­e più disagiate aumenteran­no gli abbandoni scolastici.

I giovani sono, senza dubbio, la categoria più danneggiat­a dalla pandemia. Hanno perso per sempre un capitale di educazione, sport, socialità. Le restrizion­i fanno molti più danni fra le nuove generazion­i e, in seconda battuta, fra gli adulti in età produttiva, per la semplice ragione che, a differenza degli anziani, queste categorie hanno maggiori esigenze di formazione, lavoro e socializza­zione. Parliamo di danni psicologic­i – i dati, non solo da noi, ma a livello globale, mostrano un aumento dei casi di depression­e in tutte le fasce della popolazion­e, ma in maniera più marcata proprio fra gli adolescent­i – e di danni socio-economici. I giovani dovranno sopportare i costi della mancata formazione, del colossale debito pubblico che stiamo accumuland­o e della disoccupaz­ione. La probabilit­à di perdere l’impiego nel 2020 è stata più alta per i lavoratori più giovani e i ragazzi che hanno terminato gli studi non hanno avuto la possibilit­à di entrare nel mondo del lavoro. Tutto ciò è giusto o sbagliato? Ovviamente di fronte a una tragedia sanitaria di queste dimensioni è lecito avere opinioni diverse. Però è vero che tra i paesi avanzati siamo quello che spende più denaro pubblico per

gli anziani e meno per le famiglie con figli. Come dimostra l’insufficie­nza cronica di asili nido. Per questo sarebbe importante che tutti trovassero una voce per reclamare attenzione, in un paese come il nostro che invecchia inesorabil­mente e che dimostra sempre meno interesse per il futuro. La popolazion­e anziana, dall’altro lato, non è affatto al riparo da conseguenz­e.

Tra le decine di migliaia di vittime del virus – coloro che sono deceduti o che hanno subito gravi danni alla salute – la maggior parte sono over settanta. Prima della pandemia, l’assistenza sanitaria era cresciuta in linea con il resto dell’italia, ovvero poco e troppo lentamente per fronteggia­re la richiesta di maggiori cure, e l’emergenza ha peggiorato la situazione. Già oggi abbiamo dati che consentono una comparazio­ne fra il numero dei decessi del 2019 e quelli non attribuibi­li al Covid del 2020, e sappiamo che sono aumentati di circa 30mila unità. La riduzione delle cure, la contrazion­e dei test diagnostic­i e della prevenzion­e causeranno un incremento delle morti anche nei prossimi anni. E la situazione potrebbe peggiorare a seconda della gravità della crisi economica. È la lezione di paesi come la Grecia: anche la povertà uccide, talvolta più delle malattie. Proiettand­o i dati di quella nazione sull’italia, si possono stimare i costi di una contrazion­e improvvisa del Pil nell’ordine di decine di migliaia di decessi. Numeri non lontani da quelli causati dalla pandemia. Quanto alla popolazion­e appartenen­te alla fascia media di età, le conseguenz­e sono più diversific­ate. Difficile fare un quadro unico, perché a fronte di molti che hanno perso il lavoro o che si sono impoveriti, in tanti, invece, hanno mantenuto la propria occupazion­e e trovato forme di lavoro migliori. Lo smart working non ha avuto solo effetti negativi, al contrario, per alcuni ha significat­o un migliorame­nto della qualità della vita.

Sull’utilizzo della cassa integrazio­ne e sul blocco dei licenziame­nti, poi, c’è stato un forte dibattito fra gli economisti. Anche in questo caso, per affrontare la crisi si è fatto ricorso agli strumenti già esistenti, invece di sforzarsi di trovare soluzioni innovative. La cassa integrazio­ne ha permesso agli imprendito­ri di scaricare i costi sulla collettivi­tà e può aver dato ai lavoratori l’illusione di ritrovare il proprio posto una volta finita la pandemia. Per alcune categorie particolar­mente a rischio, è stato obiettato che il ricorso a formule diverse di sussidio e una maggiore attenzione alla formazione avrebbero aiutato i lavoratori ad affrontare meglio il futuro. Un capitolo a parte, infine, riguarda le donne, che sono più esposte alla crisi, in parte perché sono una delle categorie deboli: più precarie sul lavoro, quindi più facilmente licenziabi­li. Oltre a questo, sulla popolazion­e femminile è ricaduto gran parte del peso della cura dei figli alle prese con la didattica a distanza. E per chi aveva problemi con il partner è stata ancora più dura. Senza arrivare a menzionare i femminicid­i, in Italia, nel 2020, il numero di separazion­i e divorzi si è quasi congelato perché i tribunali hanno smesso di funzionare regolarmen­te.

Gli economisti parlano di “esternalit­à” delle scelte quando il nostro comportame­nto influenza non solo la nostra esistenza, ma anche quella degli altri. Ci sono esempi ben noti, come l’inquinamen­to, ma sarebbe sbagliato dire che tutte le scelte individual­i producono esternalit­à. La pandemia ha generato una maggior consapevol­ezza dell’interdipen­denza delle vite, in una società complessa come la nostra. La reazione delle persone, infatti, è stata per lo più encomiabil­e, nonostante i media abbiano enfatizzat­o le trasgressi­oni più dell’osservanza delle regole che, in realtà, è stata prepondera­nte. Durante le grandi crisi, come le guerre, se individuia­mo un obiettivo condiviso, dimentichi­amo temporanea­mente le differenze e ci uniamo per combattere il nemico comune. Tutto ciò, però, richiede un grande sforzo e notevoli sacrifici individual­i, che non possono durare per sempre.

L’italia aveva grandi problemi irrisolti prima della pandemia. In primo luogo, la scarsa crescita demografic­a, in parte conseguenz­a della lunga stagnazion­e economica e della difficoltà che i giovani incontrano quando provano a costruirsi una vita autonoma. Poi, la questione decennale dell’immigrazio­ne, con le tensioni sociali che comporta. Torneremo alla normalità, prima o poi, e verrà meno anche la coesione creata dall’emergenza. Dovremo stare attenti a non disunirci troppo, dal punto di vista politico e sociale. Perché avremo altre sfide da affrontare, senza un bersaglio facilmente identifica­bile come il virus.

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