Ombre russe
Tra promesse non mantenute, studi clinici poco trasparenti, sfiducia della popolazione e carenze produttive, questa è la storia vera del vaccino Sputnik V. Raccontata da una delle più importanti firme del giornalismo scientifico del paese
La prima volta che si è sentito parlare del vaccino russo è stato il 7 aprile 2020. Nel corso di un incontro con alcuni importanti rappresentanti del campo medico (avvenuto al solito in videoconferenza: da mesi il presidente evitava gli appuntamenti faccia a faccia), Vladimir Putin ha annunciato che i virologi stavano lavorando sia sulla cura anti- Covid sia sui vaccini. A prendere la parola, a quel punto, non è stato Alexander Ginzburg, direttore dell’istituto di epidemiologia e microbiologia Gamaleya, pur presente, bensì Rinat Maksyutov, direttore generale del centro virologico semi-militare Vektor di Novosibirsk, nel cuore della Siberia. Ha confermato che il suo centro stava lavorando su diverse tipologie di vaccini e in particolare, ha sottolineato, su un vaccino attenuato e su uno basato sui peptidi.
Maksyutov ha promesso che avrebbero concluso la sperimentazione preclinica di lì a breve, entro il 30 aprile. All’epoca, il centro Vektor era sulla bocca di tutti: aveva il monopolio statale sui tamponi Covid e sembrava il candidato più ovvio per un incarico analogo sulle vaccinazioni. Ma il secondo tempo della partita se l’è aggiudicato l’istituto Gamaleya che, con l’appoggio di un potente alleato, il Fondo russo per gli investimenti diretti, ha tirato dritto per la sua strada sviluppando un vaccino basato sul vettore dell’adenovirus umano. A fine luglio, i mezzi d’informazione hanno sganciato la bomba: gli oligarchi e i funzionari governativi russi, dicevano, avrebbero ricevuto le prime dosi del vaccino Gamaleya già ad aprile, prima di qualsiasi sperimentazione clinica. Ginzburg ha sostenuto di non essere al corrente del fatto che chicchessia avesse ricevuto il vaccino del suo istituto, ma la risonanza della notizia è stata enorme. L’11 agosto, Vladimir Putin stesso ha confermato il primato dell’istituto Gamaleya, annunciando che la Russia aveva registrato il primo vaccino anti-covid del mondo. Ha aggiunto che era già stato somministrato a sua figlia (senza però specificare quale: ne ha due), la quale aveva avuto un po’ di febbre dopo ciascuna delle due iniezioni, ma per il resto si sentiva bene e aveva « un’alta concentrazione di anticorpi». Putin ha parlato di Sputnik V (il nome ufficiale, quello registrato è invece Gam-kovid-vak), rendendo chiaro da subito che si trattava ben più che di un fatto medico: era una questione politica di rilevanza nazionale. L’appellativo strizza l’occhio al marketing internazionale, perché l’idea di “momento Sputnik” (un’espressione che sta a indicare un punto di svolta in una competizione tecnologica tra paesi, ndr) è prevalentemente americana, non di Mosca e dintorni. Anzi, la parola “sputnik” in russo significa semplicemente “satellite, partner”, e non tutti pensano a quello Sputnik, dato che in Russia è il volo di Jurij Gagarin del 1961 a essere celebrato come un traguardo epocale, molto più che il lancio del primo satellite artificiale attorno alla Terra. È in questo modo che, sei mesi fa, il vaccino ha iniziato il suo viaggio nel mondo, o quantomeno in quello mediatico.
La tecnologia utilizzata dall’istituto Gamaleya non è rivoluzionaria come il vaccino mrna di Pfizer e Moderna, ma neppure “vecchia scuola” come quella del vaccino attenuato precedentemente annunciato da Vektor. In pratica, è un vaccino gemello di quelli di Oxford/astrazeneca, Johnson & Johnson e della cinese Cansino. Tutti e tre usano lo stesso principio: i ricercatori aggiungono il gene della proteina spike del coronavirus a una versione modificata dell’adenovirus, un virus comune che provoca tipicamente raffreddori o sintomi parainfluenzali. Dopo la somministrazione, questi adenovirus modificati penetrano all’interno delle cellule e si spingono fin dentro al nucleo, dove rilasciano il proprio dna.
L’adenovirus è geneticamente modificato in modo da non potersi replicare, mentre il gene per la proteina spike del coronavirus può essere letto dalla cellula e copiato in una molecola chiamata Rna messaggero, o mrna. L’mrna lascia il nucleo e le molecole della cellula leggono la sua sequenza e iniziano ad assemblare proteine spike. Queste ultime vengono riconosciute dal sistema immunitario, che produce anticorpi senza che l’individuo si ammali. In più, l’adenovirus fa scattare il sistema d’allarme delle cellule, che inviano segnali per attivare quelle immunitarie nelle vicinanze. Grazie a questo allarme, il vaccino fa sì che il sistema immunitario reagisca in maniera più energica alle proteine spike. Gli sviluppatori usano tipi diversi di adenovirus, ma il principio è lo stesso. E tutti si basano su decenni di studi precedenti. J& J, per esempio, ha utilizzato la stessa tecnologia contro l’ebola, e sta portando avanti studi clinici per altre malattie come l’hiv. L’istituto Gamaleya non fa eccezione. «Il nostro metodo si basa sul lavoro già fatto per
produrre il vaccino contro l’ebola. Inoltre, prima della pandemia, ci siamo concentrati per tre anni su quello per la Mers (la sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus, anche detta “influenza cammello”, ndr), perciò non abbiamo avuto dubbi su come agire», ha affermato Denis Logunov, vicedirettore dell’istituto e capo del gruppo di sviluppo del vaccino anti-covid, nell’unica intervista che ha concesso, apparsa su Meduza, una testata indipendente di Riga. Aggiungendo che il lavoro è iniziato a febbraio e che ci sono volute appena due settimane per produrre la prima versione del vaccino. Alexander Ershov, il corrispondente scientifico di Meduza che ha parlato con Logunov, ha dichiarato che l’intervista è stata possibile grazie a una lunga fase di intermediazione e che uno degli argomenti più convincenti utilizzati era che Meduza fosse considerata una testata di opposizione: «Possiamo tornare utili proprio per questo, abbiamo detto. Se i creatori del vaccino parleranno con Russia Today o con Rossija, nessuno gli darà credito».
L’annuncio di Putin della registrazione dello Sputnik V non è stato accompagnato dalla pubblicazione di alcuna documentazione scientifica sul vaccino. Sia i giornalisti scientifici sia quelli generalisti hanno dovuto lottare per avere informazioni più dettagliate sulla metodologia utilizzata e sui risultati degli studi clinici da parte degli sviluppatori, con scarsi risultati. L’istituto Gamaleya dipende dal ministero della Salute, che ne gestisce i rapporti con la stampa, ed è ufficialmente vietato ai ricercatori parlare senza l’approvazione del ministero. Ogni richiesta dei giornalisti va formulata attraverso una lettera ufficiale, che non riceve un rifiuto diretto, però rimane generalmente in attesa di risposta così a lungo che le domande non sono più attuali. Perciò i giornali gettano la spugna. Questo metodo non è stato usato solo per lo Sputnik V: è diventato abituale per l’intero periodo della pandemia in Russia. Quando mi è capitato, insieme ad altri colleghi, di intervistare oltre 20 giornalisti russi per un articolo scientifico di taglio sociologico, la stragrande maggioranza di loro ha segnalato gravi ostacoli da parte delle istituzioni nell’accesso a qualsiasi informazione sulla situazione Covid-19, dalle cifre del fenomeno allo stato degli ospedali. Il Fondo russo per gli investimenti diretti, che ha finanziato il vaccino, ha organizzato diversi incontri con i media, durante i quali il suo amministratore delegato, Kirill Dmitriev, ha fatto affermazioni molto controverse senza che nessuno lo contraddicesse, sia perché i giornalisti presenti erano stati attentamente selezionati, sia perché qualsiasi domanda doveva prima passare attraverso uno scrupoloso processo di moderazione. La completa assenza di trasparenza ha sollevato dubbi e sfiducia nei confronti del vaccino tanto nella comunità scientifica internazionale quanto all’interno della stessa popolazione russa.
L´articolo scientifico sulla prima e sulla seconda fase degli studi clinici, pubblicato lo scorso settembre su The Lancet, ha in parte risposto alle domande dei ricercatori, ma ha ricevuto anche diverse critiche. Un gruppo di scienziati – tra cui l’italiano Enrico Bucci, professore a contratto della Temple University di Philadelphia, che ha definito il vaccino russo « una black box » per la mancanza d’informazioni – ha scritto alla rivista americana per chiedere chiarimenti sui dati pubblicati. D’altronde è difficile considerarli sufficienti, poiché si basavano su un campione di appena 76 persone, per di più tra i 18 e i 60 anni, quindi al di fuori dell’età a maggior rischio. Lo studio non è né in cieco (cioè condotto tenendone all’oscuro i partecipanti) né randomizzato (cioè con un’assegnazione casuale del trattamento clinico ai suddetti), ed esistono seri dubbi sul fatto che sia stato condotto su base volontaria, considerato che la maggior parte dei soggetti coinvolti fa parte dell’esercito. Nonostante abbiano dimostrato la formazione di anticorpi neutralizzanti, gli stessi autori dell’articolo ammettono apertamente i punti deboli della sperimentazione, sottolineando anche che i soldati potrebbero essere un campione più
«Gli over 65 si vaccinano per riattivare gli abbonamenti ai mezzi pubblici, che sono stati sospesi per incentivarli a stare in casa»
sano della media e promettendo di indagare in futuro la risposta immunitaria dei gruppi più a rischio. L’articolo dedicato allo studio della fase 3 è apparso il 2 febbraio 2021, sempre su The Lancet, e i dati rimangono scarsi. Questa volta si tratta di uno studio randomizzato e in cieco, condotto su 21.977 partecipanti, solo 2144 dei quali di età superiore ai 60 anni. L’efficacia del vaccino per il gruppo più a rischio resta, insomma, un grande punto interrogativo.
« La critica degli articoli fa parte del normale processo scientifico, specie quando si tratta di cose di fondamentale importanza sociale come un vaccino o un farmaco in piena pandemia », afferma Alexander Kabanov, membro dell’accademia russa delle scienze e docente all’università statale di Mosca e alla University of North Carolina di Chapel Hill. «Quando si combatte un virus del genere, è necessario avere a disposizione non un solo vaccino, ma diversi, sviluppati seguendo principi differenti, dato che non è chiaro per quanto tempo durerà l’immunità sviluppata e se è possibile assumere lo stesso vaccino per la seconda volta ». Quando, il 3 dicembre a Mosca, la campagna di vaccinazione russa è iniziata ufficialmente, lo scenario era molto diverso da quello che ci si può aspettare in Europa, negli Stati Uniti o in Israele. Scarsa comunicazione, nessuna priorità per i gruppi a rischio, nessuna organizzazione per età e quasi nessun obbligo per il personale medico. Anzi, a causa della mancanza di prove cliniche, avere più di 60 anni o soffrire di una malattia cronica sono state ufficialmente considerate ragioni per rifiutare il vaccino a chi lo richiedeva. Alcuni testimoni riferiscono che nei primi giorni circa il 50% di coloro che avevano prenotato una vaccinazione sono stati respinti perché non ammissibili, incluse molte delle persone più a rischio di contrarre il virus, come anziani, diabetici e pazienti cardiologici. Solo a febbraio, dopo i risultati della fase 3, hanno finalmente potuto accedere al vaccino. Tuttavia, la stragrande maggioranza di chi si è vaccinato è formata dalle persone più intraprendenti, sotto i 60 anni, che si sono impegnate per riuscirci. Si segnalano anche casi in cui il datore di lavoro ha fortemente sollecitato la vaccinazione, ma è facile farla franca dicendo «già fatto», perché non esistono controlli ed essere stati ammalati di Covid-19 è ritenuto sufficiente per non dover fare il vaccino.
Il motivo di una campagna vaccinale blanda è abbastanza ovvio: c’è poco da spingere, le dosi disponibili sono molto scarse. Ufficialmente, ci sono sei aziende certificate per produrre lo Sputnik V: Biocad, Lekko, Generium, Pharmstandard-ufavita, Binnopharm e lo stesso Istituto Gamaleya, ma nonostante lo sforzo collettivo il numero effettivo di dosi prodotte è parecchio lontano dai « milioni » promessi. A Mosca, metropoli di 12 milioni di abitanti, a fine gennaio erano state somministrate appena 320mila dosi, stando al sindaco Sergej Sobjanin. Per ricevere il vaccino, bisogna prendere un appuntamento registrandosi sul sito dei servizi pubblici Gosuslugi.ru. « Io e mio figlio abbiamo fatto la prima e la seconda dose al poliambulatorio locale. Tutto è ben organizzato, non ci sono code», racconta Olga Belokoneva, biotecnologa moscovita. «Ti chiedono che lavoro fai, ma non ci sono restrizioni. Ho visto tante facce giovani, mi sembra che la motivazione principale per vaccinarsi sia l’insofferenza per le continue quarantene. Invece gli over 65 hanno un’altra ragione altrettanto pragmatica: lo sblocco degli abbonamenti agevolati ai mezzi pubblici, che adesso per loro sono sospesi per incentivarli a stare in casa ».
Poi, come spesso accade, c’è Mosca e c’è la Russia: il che significa che la situazione nella capitale è nettamente migliore che nel resto del paese. Mentre a Mosca la fornitura del vaccino copre finora la domanda, già San Pietroburgo, 5 milioni di abitanti e duramente colpita dall’epidemia, soffre la carenza di vaccino e ha ricevuto al momento della stesura dell’articolo solo 80mila dosi. Le persone corrono da un
ospedale all’altro alla ricerca di un’iniezione e trascorrono ore al numero verde. Altre regioni hanno iniziato la loro campagna di vaccinazione solo a metà gennaio e hanno ottenuto giusto qualche migliaio di dosi, che non sono sufficienti nemmeno per gli operatori sanitari. Questa situazione è in netto contrasto con le promesse governative di produrre milioni di dosi ogni mese e con le affermazioni di Kirill Dmitriev del Fondo finanziatore del vaccino, secondo il quale oltre 1,2 miliardi di dosi di Sputnik V sono state ordinate da oltre 40 paesi. La chiara volontà di dare la precedenza ai clienti stranieri rispetto al mercato interno ha già sollevato diverse proteste tra la popolazione: l’argentina ha ricevuto le prime 300mila dosi di Sputnik V il 29 dicembre, molto prima dell’inizio della campagna di vaccinazione nelle regioni russe, e non è l’unico caso.
Esistono altri vaccini giunti attualmente alla fase di studio clinico in Russia. Da febbraio, per esempio, è disponibile per la popolazione (sempre in quantità limitata) il secondo: si chiama Epivaccorona ed è un vaccino peptidico di Vektor. I dati stavolta sono ancora più scarsi: nessun articolo scientifico pubblicato, nessuna informazione dettagliata su studi clinici. Però c’è una lettera pubblica indirizzata al ministero della Salute e firmata dai 59 partecipanti agli studi clinici, i quali hanno fatto le analisi in autonomia e hanno scoperto che il 50% di loro non ha nessun anticorpo (quando solo il 25% dovrebbe aver ricevuto il placebo) e gli altri hanno livelli di anticorpi bassissimi.
Un terzo vaccino, di tipo attenuato, è quello dell’istituto Chumakov di San Pietroburgo. Ma ragionevolmente sia quest’ultimo sia Epivaccorona incontreranno gli stessi problemi di Sputnik V: la produzione di massa è da sempre una maledizione dell’economia sovietica e rimane a tutt’oggi un tallone d’achille delle aziende farmaceutiche locali, nonostante i grandi investimenti annunciati in questo campo negli ultimi 10 anni. Intanto, i dati anagrafici resi pubblici il 10 febbraio dicono che nel periodo tra aprile e dicembre 2020 c’è stato nel paese un eccesso di mortalità di 358mila persone. Un dato che porta a concludere che la cifra dei decessi da Covid ufficialmente dichiarata, cioè 57mila morti, è probabilmente sottostimata di oltre sei volte. E questo collocherebbe la Russia al secondo posto mondiale fra i paesi più colpiti dal virus, dopo gli Stati Uniti. Da febbraio, quasi tutte le regioni hanno cancellato ogni restrizione: sono aperte le scuole, gli uffici, i centri commerciali, i locali, i teatri.
Alexandra Borissova
È tra i più noti e premiati giornalisti scientifici russi, già co-fondatrice e presidente dell’associazione dei comunicatori di scienza del suo paese, Akson. Ha un dottorato in Chimica- Fisica e attualmente insegna Comunicazione scientifica a giornalisti e ricercatori. Da alcuni anni vive a Genova e fa parte del direttivo dell’associazione Swim (Science Writers in Italy).