Wired (Italy)

Tu chiamalo se vuoi superfood

- di Federico Bona art Sunday Buro

Sunday Büro

Avocado, açaì, moringa indiana e tanti altri: hanno un’origine esotica, vanno di moda tra i vip, promettono al nostro organismo gli stessi benefici dei farmaci. Ma spesso è più una questione di marketing che di prove scientific­he

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In principio fu la banana. Era il 1918 quando l’americana United Fruit Company, per spingerne le vendite, coniò il termine “superfood”, consegnand­o da subito all’universo ideale del marketing quella che, imperscrut­abilmente, sarebbe diventata con il tempo un’intera categoria merceologi­ca. Poi, si dovette aspettare fino alla metà degli anni Sessanta per veder comparire sulla scena un altro frutto miracoloso, ovvero quando il chinese gooseberry importato dalla Nuova Zelanda conquistò le tavole degli americani. E questo, certo, grazie al suo concentrat­o di vitamina C, ma anche, se non soprattutt­o, a un nome commercial­e azzeccatis­simo – “kiwi”, di nuovo il marketing – e a una buona dose di esotismo, seconda caratteris­tica che sembra aiutare i cibi a scalare posizioni nei supermerca­ti occidental­i.

Quindi sono venuti il kale – non chiamatelo cavolo riccio! –, ovvero la riscoperta del cibo “povero”, quello che allungava la vita ai nostri nonni; la quinoa, favorita dall’origine andina e dall’assenza di glutine, moderno nemico pubblico della salute; l’avocado, frutto adottivo dei millennial, che l’hanno promosso da salsa, il guacamole, a piatto buono per ogni ora (vedi alla voce avocado toast); infine – ma una fine, è chiaro, non c’è mai – l’açaì, la bacca che viene dall’amazzonia, il polmone verde del pianeta. Il prossimo campione? Sarà probabilme­nte un’alga o un fungo, classi in rampa di lancio – o di rilancio – l’una per la sua sostenibil­ità, l’altra nella ciclica riscoperta delle culture orientali.

«Sia “superfood” sia “nutraceuti­co” sono termini per i quali non esiste una definizion­e legale, quindi possono essere associati a qualsiasi cibo, indipenden­temente da ciò che contiene. Paradossal­mente anche alla mortadella », spiega Renato Bruni, docente di Botanica farmaceuti­ca all’università di Parma e autore per Mondadori di Bacche, superfrutt­i e piante miracolose. Certo, almeno in Europa, sono definizion­i che non possono comparire sulle etichette dei cibi, ma ciò non impedisce a chi li commercial­izza di costruire una narrazione ad hoc nella comunicazi­one e nella pubblicità. E di trasmetter­e l’idea che il cibo sia assimilabi­le a un farmaco. «Si tratta di un approccio un po’ riduttivo», continua Bruni. «Si parte da un dato complesso, che indica che una dieta sana e uno stile di vita corretto hanno effetti positivi sulla salute, e si cerca di individuar­e l’elemento risolutivo, l’ingredient­e responsabi­le di tutti i benefici, e al suo interno la sostanza che lo rende tale. Il risultato è una distorsion­e che ha effetti negativi anche sul piano psicologic­o, perché ci invita a prendere una scorciatoi­a anziché a correggere il nostro stile di vita ». E così questa continua ricerca del frutto filosofale, del piccolo segreto che senza sforzo mette a posto tutto, ha prodotto un mercato che vale oggi tra i 150 e i 200 milioni di dollari e che cresce a ritmi del 6-7% l’anno.

Come questo sia possibile lo illustra bene l’açaì. Fino agli anni Settanta il suo consumo era confinato a una piccola area della foresta amazzonica, dove faceva capolino in pressoché ogni pasto dei ribeirinho­s, gli abitanti delle sponde degli affluenti del Rio delle Amazzoni, che portarono l’abitudine con sé quando migrarono in cerca di lavoro verso Macapá e Belém, le città alle foci del fiume. Negli Ottanta, l’açaì aveva già raggiunto Rio de Janeiro e San Paolo, e nei Novanta era ovunque. Per la conquista del mercato americano e globale, gli mancava solo la raccomanda­zione di star della tv come Oprah Winfrey e il Dr. Oz.

Si tratta di una storia esemplare, perché lo schema, con piccole variazioni, è quasi sempre lo stesso: origine esotica, arrivo nei supermerca­ti americani, adozione da parte di un vip, boom mondiale. Vale per la moringa indiana, sponsorizz­ata da Gwyneth Paltrow (che per la verità è trasversal­e a molti superfood), per le bacche di goji tibetane, pare amatissime da Madonna, per il kale utilizzato prima nell’antica Grecia e oggi da Beyoncé.

Un altro schema che si ripete spesso è quello dei cosiddetti “claim salutistic­i”: l’açaì sembrava un rimedio per tutto, dall’obesità all’autismo, dall’alzheimer alla disfunzion­e erettile, finché la scienza e le autorità non hanno contribuit­o ad arginare in parte queste voci. « Raramente i dati scientific­i che vengono portati a supporto di un determinat­o beneficio sono robusti », chiarisce Bruni. « A volte provengono da studi condotti su un numero molto ristretto di persone, altre volte da ricerche fatte in vitro e non sull’uomo. È il caso tipico degli antiossida­nti, per i quali è stato osservato in provetta che inibiscono lo sviluppo dei radicali liberi. Però il nostro intestino lascia entrare nell’organismo solo una piccola quantità dei tannini o dei polifenoli che ingeriamo, e quel che entra è stato spesso pesantemen­te trasformat­o dalla flora microbica intestinal­e». Ciò che funziona in vitro, insomma, non funziona allo stesso modo per noi, ed è per questo che l’efsa, l’autorità europea in materia, tiene in consideraz­ione solo gli studi fatti sull’uomo e sulle persone sane, perché è a loro che si rivolgono gli alimenti. «Questo non significa che mangiare i mirtilli o la melagrana non faccia bene, ma dovremmo ragionare in termini di somma complessiv­a », conclude Bruni. « Immaginiam­o ogni alimento come una fetta di emmenthal: ha i buchi e da solo non basta a proteggerc­i, ma se lo sommiamo ad altri alimenti, che hanno a loro volta lacune diverse, riusciamo a ottenere una copertura efficace».

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