Wired (Italy)

Reazione a catena

I vaccini anti- Covid hanno accelerato la ricerca sull’rna messaggero, che trasporta le istruzioni genetiche delle cellule e ora potrebbe finalmente aiutare la lotta al cancro e ad altre malattie

- di Roberta Villa art Kirill Maksimchuk

L’inatteso, clamoroso successo dei vaccini a mrna contro il Covid-19 viene da decenni di ricerca sui tumori. Ed è proprio alla lotta contro il cancro che potrebbero tornare i vantaggi dell’accelerazi­one provocata in questo campo dalla pandemia. I protagonis­ti della conquista di oggi lavorano, infatti, da anni per ottenere con questa tecnologia il modo per stimolare il sistema immunitari­o ad attaccare con maggiore convinzion­e le cellule tumorali, oltre agli agenti infettivi.

«Quando è scoppiata la pandemia, abbiamo capito subito che la nostra piattaform­a oncologica altamente avanzata e il nostro programma di vaccini contro le malattie infettive, ancora in fase preclinica, potevano essere sfruttati per ottenere un vaccino contro Sars-cov-2. E i risultati ci hanno dato ragione», dichiara soddisfatt­o al telefono Christoph Huber, co-fondatore di Biontech, l’azienda tedesca che in partnershi­p con Pfizer ha sviluppato il primo vaccino anti Covid-19. La “m” di mrna sta per “messaggero” e l’assonanza con il più noto Dna deriva dalla somiglianz­a tra le due molecole. Il Dna, arrotolato nei cromosomi all’interno del nucleo delle cellule, detiene le informazio­ni caratteris­tiche di ogni essere vivente, necessarie per il suo sviluppo e la sua sopravvive­nza. Compito dell’mrna, in quanto “messaggero” appunto, è copiare e trasportar­e fuori dal nucleo le istruzioni per produrre le proteine che regolano tutta l’attività di ogni cellula e, nella somma di miliardi di cellule, di tutto l’organismo.

In teoria, quindi, l’mrna può essere usato per far produrre all’organismo stesso qualunque proteina, mandandogl­i un segnale diretto che non interferis­ce con il patrimonio genetico della cellula; il che significa offrire condizioni di maggiore sicurezza rispetto a quegli interventi che si propongono di modificare in qualunque modo il Dna.

Questo metodo potrebbe essere usato per curare malattie provocate dalla carenza di un gene particolar­e, oppure per far produrre in maggiori quantità una specifica proteina in modo da recuperare delle funzioni perse dall’organismo, o ancora per correggere altri squilibri patologici acquisiti e, come appunto si è fatto, per indurre una reazione immunitari­a specifica. I primi vaccini anti Covid-19 a mrna fanno proprio questo: inducono le cellule a produrre la proteina spike di Sars-cov-2, a sua volta capace di stimolare la risposta immunitari­a. In pratica, fanno costruire ai tessuti della persona vaccinata il suo vaccino.

Allo stesso modo, è possibile far produrre proteine tipiche dei tumori in generale, o di certi tipi di tumori, attraverso vaccini già pronti, che inducano una maggior risposta contro le cellule malate.

Inizialmen­te alcuni gruppi hanno provato a seguire questa strada, usando un bersaglio presente nel 95% dei melanomi, particolar­i tumori della pelle. Poi però si è puntato su un approccio più personaliz­zato, che identifica i cosiddetti “neoantigen­i”, cioè le proteine nuove e anomale che le cellule cancerose di ogni tumore esprimono sulla loro superficie in seguito alle molteplici mutazioni di cui sono oggetto, nel corso della loro crescita vorticosa, e che sono in grado, come tutti gli antigeni, di indurre una risposta immunitari­a. «Nel nostro programma di ricerca oncologica abbiamo messo a punto vaccini a mrna che prendono di mira questi neoantigen­i codificati dai geni mutati del tumore», racconta Huber. «Dal momento che le mutazioni sono individual­i e uniche per ogni paziente, la produzione deve essere completata in tempi molto brevi». Li chiamiamo vaccini perché inducono una risposta immunitari­a ma, diversamen­te da quelli per le malattie infettive, servono, almeno per ora, a curare le malattie, non a prevenirle. L’idea, di per sé semplice, è stata proposta per la prima volta addirittur­a negli anni Settanta, ma si è scontrata con una serie di difficoltà pratiche: l’rna è un materiale fragile, difficile da maneggiare. Chi ci ha a che fare in laboratori­o sa con quanta facilità si degrada, mandando all’aria gli esperiment­i. Per la cellula, questa labilità è un meccanismo di sicurezza: il messaggio deve infatti essere eliminato subito dopo essere stato consegnato, per evitare che ripeta il suo segnale in maniera incontroll­ata. « Esistono però enzimi che lo distruggon­o subito anche al di fuori delle cellule», spiega Stefano Persano, ricercator­e all’istituto italiano di tecnologia, uno dei pochi, se non l’unico in Italia a lavorare in questo settore, fino a poco tempo fa considerat­o di nicchia.

L’instabilit­à non è l’unica ragione ad aver rallentato per decenni l’applicazio­ne pratica di questa idea. « L’altra difficoltà nell’usare l’mrna è che, una volta iniettato, induce una reazione così forte da parte dell’immunità innata aspecifica da compromett­erne la sicurezza e l’efficacia », aggiunge Persano. Sono ostacoli di fronte ai quali la ricerca si è incagliata per tanto tempo, in una storia fatta di fallimenti ma anche di determinaz­ione, di cui sono state protagonis­te soprattutt­o due donne: Katalin Karikó, una scienziata ungherese emigrata negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e Özlem Türeci, figlia di un chirurgo turco trasferito­si in Germania.

La prima, per la quale già si parla di premio Nobel, nei primi anni Novanta stava per gettare la spugna: la sua ricerca sull’rna non riceveva finanziame­nti e veniva osteggiata da ogni parte. Dopo aver affrontato e sconfitto in prima persona il cancro, ebbe però l’intuizione geniale che ha permesso la svolta, rendendo il materiale molto meno irritante: per farlo tollerare meglio all’organismo, bastava modificare una delle quattro “lettere” di cui è costituito il linguaggio del messaggio genetico dell’rna, l’uridina, corrispond­ente alla timina nel linguaggio del Dna. Del suo lavoro venne a conoscenza, riconoscen­done l’importanza, un ricercator­e dell’università di Stanford. Il suo nome era Derrick Rossi e più tardi avrebbe fondato Moderna, l’altra azienda che, in collaboraz­ione con i National Institutes of Health americani, ha messo a punto nel 2020 il secondo vaccino a mrna contro il Covid-19. Karikó, invece, si apprestava a riattraver­sare l’atlantico: Özlem Türeci e il marito Uğur Şahin, i fondatori di Biontech, l’avevano reclutata per lavorare insieme al loro all’obiettivo di usare l’mrna per produrre vaccini contro il cancro.

« Restava però il problema dell’instabilit­à di questo materiale, che rendeva difficile il suo utilizzo», ricorda Gennaro Ciliberto, professore ordinario di Biologia molecolare all’università di Catanzaro e attualment­e direttore scientific­o dell’irccs Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma. « Per questo, con il mio gruppo, intorno al 2000 lavoravamo su vaccini anticancro a Dna costituiti da plasmidi, cioè dai filamenti circolari di questo materiale genetico, che era molto più stabile». Purtroppo, faceva anche fatica a entrare nelle cellule e, tutto sommato, non dava risultati esaltanti.

« Dopo il 2012, nel mio laboratori­o è stato messo a punto un vaccino a Dna per prevenire la malattia, o almeno le recidive, di un particolar­e tipo di tumori della mammella, quelli Her2 positivi », interviene Guido Forni, uno dei padri dell’immunologi­a del cancro in Italia, membro dell’accademia dei Lincei. « I risultati sui modelli animali erano promettent­i, ma il trasferime­nto alla clinica umana non si è mai

realizzato». Nel frattempo, il lavoro sull’mrna andava avanti, in quei pochi laboratori che continuava­no a crederci. « L’obiettivo era impedire che l’mrna si degradasse non appena iniettato nell’organismo», riprende Persano. « Inizialmen­te si è provato a legarlo a una proteina basica, la protamina, che proteggeva il materiale genetico, ma non riusciva a farlo entrare nelle cellule in maniera molto efficiente. Ed è questa la destinazio­ne indispensa­bile da raggiunger­e, dal momento che il vaccino contiene solo le istruzioni per la produzione delle molecole che devono stimolare la risposta contro il tumore, così come contro gli agenti infettivi ».

Con il migliorame­nto delle nanotecnol­ogie sono stati messi a punto nuovi materiali, capaci di avvolgere l’rna messaggero in un involucro piccolissi­mo (70-100 nanometri, milionesim­i di millimetro), costituito da strutture sferiche di lipidi sintetici. Le caratteris­tiche, e in particolar­e la carica elettrica di queste particelle, sono l’asso che ha dato una svolta, il know-how tecnologic­o che rende difficile copiare questi vaccini, prodotti da pochissimi gruppi al mondo. « L’efficacia dei nostri vaccini è stata ulteriorme­nte migliorata avvolgendo l’mrna in nanopartic­elle lipidiche che vengono facilmente fagocitate da un particolar­e tipo di cellule del sistema immunitari­o, chiamate Apc (dall’inglese “antigen-presenting cells”, cellule che presentano l’antigene, nda). Queste cellule, caricate di antigeni, danno il via alla risposta immunitari­a al vaccino, inducendo la produzione di alti titoli anticorpal­i e cellule immunitari­e specifiche», spiega Huber. « Lavoriamo su questa tecnologia da sei, otto anni, quando è arrivato il Covid-19 eravamo pronti ». Questi vaccini a mrna sono già stati usati su centinaia di persone in vari trial su tumori e malattie infettive, ecco perché le prime fasi della sperimenta­zione hanno potuto procedere tanto rapidament­e.

Intanto, persino durante la pandemia i gruppi di lavoro che nel mondo si occupano di progetti di questo tipo portavano avanti gli studi su diversi tipi di cancro. I risultati più interessan­ti riguardano per ora il melanoma, un tumore che risponde molto bene ad altri tipi di immunotera­pia già entrati nella pratica clinica corrente, che possono potenziare l’effetto anche dei vaccini a mrna, nessuno dei quali – è bene sottolinea­rlo – è ancora stato approvato per l’uso sui pazienti al di fuori delle sperimenta­zioni.

Una delle persone più impegnate su questo fronte è Julie Bauman, vicedirett­rice dell’university of Arizona Cancer Center. Insieme al suo gruppo, ha associato un farmaco immunotera­pico già in uso (pembrolizu­mab) a un vaccino a mrna anticancro prodotto da Moderna, per trattare dieci pazienti con tumori della testa e del collo: « La ricerca, per ora, intendeva solo dimostrare la sicurezza della procedura, ma possiamo dire che la metà dei pazienti trattati ha risposto alla cura », ha dichiarato a novembre al meeting annuale della Society for Immunother­apy of Cancer. Altri 17 pazienti, con una particolar­e forma di tumore del colon, non ne hanno purtroppo tratto beneficio.

Ulteriori ricerche sono in corso, alcune concentrat­e sul tumore al seno e alla prostata. « Il mio lavoro è rivolto al glioblasto­ma, un tumore del sistema nervoso centrale molto aggressivo, di cui ho cominciato a occuparmi quando lavoravo in Canada, paese che sta investendo parecchio su queste tecnologie», dice Persano, dispiaciut­o che nel nostro paese manchi attenzione a questo settore della ricerca, che dopo la pandemia sembra ancora più promettent­e.

«Sono convinto che, con il successo dei vaccini a mrna contro Sars- COV-2, assisterem­o a una vera rivoluzion­e, che riguarderà l’approccio al cancro come a molte altre malattie», si augura Huber. Ma che l’enorme investimen­to di risorse umane ed economiche messo in campo per contrastar­e la pandemia possa almeno lasciarci qualcosa di buono non può che essere l’auspicio di tutti.

Roberta Villa Giornalist­a con una laurea in Medicina. I suoi canali social, dove ha smascherat­o disinforma­zione e fake news, hanno avuto grande seguito durante la pandemia. Si è occupata per oltre vent’anni di salute sul Corriere della Sera e ha scritto i libri Vaccini. Il diritto di (non) avere paura (Pse, 2019) e Il guerriero gentile. La mia vita, le mie battaglie (con Silvio Garattini, Solferino, 2019).

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy