Reazione a catena
I vaccini anti- Covid hanno accelerato la ricerca sull’rna messaggero, che trasporta le istruzioni genetiche delle cellule e ora potrebbe finalmente aiutare la lotta al cancro e ad altre malattie
L’inatteso, clamoroso successo dei vaccini a mrna contro il Covid-19 viene da decenni di ricerca sui tumori. Ed è proprio alla lotta contro il cancro che potrebbero tornare i vantaggi dell’accelerazione provocata in questo campo dalla pandemia. I protagonisti della conquista di oggi lavorano, infatti, da anni per ottenere con questa tecnologia il modo per stimolare il sistema immunitario ad attaccare con maggiore convinzione le cellule tumorali, oltre agli agenti infettivi.
«Quando è scoppiata la pandemia, abbiamo capito subito che la nostra piattaforma oncologica altamente avanzata e il nostro programma di vaccini contro le malattie infettive, ancora in fase preclinica, potevano essere sfruttati per ottenere un vaccino contro Sars-cov-2. E i risultati ci hanno dato ragione», dichiara soddisfatto al telefono Christoph Huber, co-fondatore di Biontech, l’azienda tedesca che in partnership con Pfizer ha sviluppato il primo vaccino anti Covid-19. La “m” di mrna sta per “messaggero” e l’assonanza con il più noto Dna deriva dalla somiglianza tra le due molecole. Il Dna, arrotolato nei cromosomi all’interno del nucleo delle cellule, detiene le informazioni caratteristiche di ogni essere vivente, necessarie per il suo sviluppo e la sua sopravvivenza. Compito dell’mrna, in quanto “messaggero” appunto, è copiare e trasportare fuori dal nucleo le istruzioni per produrre le proteine che regolano tutta l’attività di ogni cellula e, nella somma di miliardi di cellule, di tutto l’organismo.
In teoria, quindi, l’mrna può essere usato per far produrre all’organismo stesso qualunque proteina, mandandogli un segnale diretto che non interferisce con il patrimonio genetico della cellula; il che significa offrire condizioni di maggiore sicurezza rispetto a quegli interventi che si propongono di modificare in qualunque modo il Dna.
Questo metodo potrebbe essere usato per curare malattie provocate dalla carenza di un gene particolare, oppure per far produrre in maggiori quantità una specifica proteina in modo da recuperare delle funzioni perse dall’organismo, o ancora per correggere altri squilibri patologici acquisiti e, come appunto si è fatto, per indurre una reazione immunitaria specifica. I primi vaccini anti Covid-19 a mrna fanno proprio questo: inducono le cellule a produrre la proteina spike di Sars-cov-2, a sua volta capace di stimolare la risposta immunitaria. In pratica, fanno costruire ai tessuti della persona vaccinata il suo vaccino.
Allo stesso modo, è possibile far produrre proteine tipiche dei tumori in generale, o di certi tipi di tumori, attraverso vaccini già pronti, che inducano una maggior risposta contro le cellule malate.
Inizialmente alcuni gruppi hanno provato a seguire questa strada, usando un bersaglio presente nel 95% dei melanomi, particolari tumori della pelle. Poi però si è puntato su un approccio più personalizzato, che identifica i cosiddetti “neoantigeni”, cioè le proteine nuove e anomale che le cellule cancerose di ogni tumore esprimono sulla loro superficie in seguito alle molteplici mutazioni di cui sono oggetto, nel corso della loro crescita vorticosa, e che sono in grado, come tutti gli antigeni, di indurre una risposta immunitaria. «Nel nostro programma di ricerca oncologica abbiamo messo a punto vaccini a mrna che prendono di mira questi neoantigeni codificati dai geni mutati del tumore», racconta Huber. «Dal momento che le mutazioni sono individuali e uniche per ogni paziente, la produzione deve essere completata in tempi molto brevi». Li chiamiamo vaccini perché inducono una risposta immunitaria ma, diversamente da quelli per le malattie infettive, servono, almeno per ora, a curare le malattie, non a prevenirle. L’idea, di per sé semplice, è stata proposta per la prima volta addirittura negli anni Settanta, ma si è scontrata con una serie di difficoltà pratiche: l’rna è un materiale fragile, difficile da maneggiare. Chi ci ha a che fare in laboratorio sa con quanta facilità si degrada, mandando all’aria gli esperimenti. Per la cellula, questa labilità è un meccanismo di sicurezza: il messaggio deve infatti essere eliminato subito dopo essere stato consegnato, per evitare che ripeta il suo segnale in maniera incontrollata. « Esistono però enzimi che lo distruggono subito anche al di fuori delle cellule», spiega Stefano Persano, ricercatore all’istituto italiano di tecnologia, uno dei pochi, se non l’unico in Italia a lavorare in questo settore, fino a poco tempo fa considerato di nicchia.
L’instabilità non è l’unica ragione ad aver rallentato per decenni l’applicazione pratica di questa idea. « L’altra difficoltà nell’usare l’mrna è che, una volta iniettato, induce una reazione così forte da parte dell’immunità innata aspecifica da comprometterne la sicurezza e l’efficacia », aggiunge Persano. Sono ostacoli di fronte ai quali la ricerca si è incagliata per tanto tempo, in una storia fatta di fallimenti ma anche di determinazione, di cui sono state protagoniste soprattutto due donne: Katalin Karikó, una scienziata ungherese emigrata negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e Özlem Türeci, figlia di un chirurgo turco trasferitosi in Germania.
La prima, per la quale già si parla di premio Nobel, nei primi anni Novanta stava per gettare la spugna: la sua ricerca sull’rna non riceveva finanziamenti e veniva osteggiata da ogni parte. Dopo aver affrontato e sconfitto in prima persona il cancro, ebbe però l’intuizione geniale che ha permesso la svolta, rendendo il materiale molto meno irritante: per farlo tollerare meglio all’organismo, bastava modificare una delle quattro “lettere” di cui è costituito il linguaggio del messaggio genetico dell’rna, l’uridina, corrispondente alla timina nel linguaggio del Dna. Del suo lavoro venne a conoscenza, riconoscendone l’importanza, un ricercatore dell’università di Stanford. Il suo nome era Derrick Rossi e più tardi avrebbe fondato Moderna, l’altra azienda che, in collaborazione con i National Institutes of Health americani, ha messo a punto nel 2020 il secondo vaccino a mrna contro il Covid-19. Karikó, invece, si apprestava a riattraversare l’atlantico: Özlem Türeci e il marito Uğur Şahin, i fondatori di Biontech, l’avevano reclutata per lavorare insieme al loro all’obiettivo di usare l’mrna per produrre vaccini contro il cancro.
« Restava però il problema dell’instabilità di questo materiale, che rendeva difficile il suo utilizzo», ricorda Gennaro Ciliberto, professore ordinario di Biologia molecolare all’università di Catanzaro e attualmente direttore scientifico dell’irccs Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma. « Per questo, con il mio gruppo, intorno al 2000 lavoravamo su vaccini anticancro a Dna costituiti da plasmidi, cioè dai filamenti circolari di questo materiale genetico, che era molto più stabile». Purtroppo, faceva anche fatica a entrare nelle cellule e, tutto sommato, non dava risultati esaltanti.
« Dopo il 2012, nel mio laboratorio è stato messo a punto un vaccino a Dna per prevenire la malattia, o almeno le recidive, di un particolare tipo di tumori della mammella, quelli Her2 positivi », interviene Guido Forni, uno dei padri dell’immunologia del cancro in Italia, membro dell’accademia dei Lincei. « I risultati sui modelli animali erano promettenti, ma il trasferimento alla clinica umana non si è mai
realizzato». Nel frattempo, il lavoro sull’mrna andava avanti, in quei pochi laboratori che continuavano a crederci. « L’obiettivo era impedire che l’mrna si degradasse non appena iniettato nell’organismo», riprende Persano. « Inizialmente si è provato a legarlo a una proteina basica, la protamina, che proteggeva il materiale genetico, ma non riusciva a farlo entrare nelle cellule in maniera molto efficiente. Ed è questa la destinazione indispensabile da raggiungere, dal momento che il vaccino contiene solo le istruzioni per la produzione delle molecole che devono stimolare la risposta contro il tumore, così come contro gli agenti infettivi ».
Con il miglioramento delle nanotecnologie sono stati messi a punto nuovi materiali, capaci di avvolgere l’rna messaggero in un involucro piccolissimo (70-100 nanometri, milionesimi di millimetro), costituito da strutture sferiche di lipidi sintetici. Le caratteristiche, e in particolare la carica elettrica di queste particelle, sono l’asso che ha dato una svolta, il know-how tecnologico che rende difficile copiare questi vaccini, prodotti da pochissimi gruppi al mondo. « L’efficacia dei nostri vaccini è stata ulteriormente migliorata avvolgendo l’mrna in nanoparticelle lipidiche che vengono facilmente fagocitate da un particolare tipo di cellule del sistema immunitario, chiamate Apc (dall’inglese “antigen-presenting cells”, cellule che presentano l’antigene, nda). Queste cellule, caricate di antigeni, danno il via alla risposta immunitaria al vaccino, inducendo la produzione di alti titoli anticorpali e cellule immunitarie specifiche», spiega Huber. « Lavoriamo su questa tecnologia da sei, otto anni, quando è arrivato il Covid-19 eravamo pronti ». Questi vaccini a mrna sono già stati usati su centinaia di persone in vari trial su tumori e malattie infettive, ecco perché le prime fasi della sperimentazione hanno potuto procedere tanto rapidamente.
Intanto, persino durante la pandemia i gruppi di lavoro che nel mondo si occupano di progetti di questo tipo portavano avanti gli studi su diversi tipi di cancro. I risultati più interessanti riguardano per ora il melanoma, un tumore che risponde molto bene ad altri tipi di immunoterapia già entrati nella pratica clinica corrente, che possono potenziare l’effetto anche dei vaccini a mrna, nessuno dei quali – è bene sottolinearlo – è ancora stato approvato per l’uso sui pazienti al di fuori delle sperimentazioni.
Una delle persone più impegnate su questo fronte è Julie Bauman, vicedirettrice dell’university of Arizona Cancer Center. Insieme al suo gruppo, ha associato un farmaco immunoterapico già in uso (pembrolizumab) a un vaccino a mrna anticancro prodotto da Moderna, per trattare dieci pazienti con tumori della testa e del collo: « La ricerca, per ora, intendeva solo dimostrare la sicurezza della procedura, ma possiamo dire che la metà dei pazienti trattati ha risposto alla cura », ha dichiarato a novembre al meeting annuale della Society for Immunotherapy of Cancer. Altri 17 pazienti, con una particolare forma di tumore del colon, non ne hanno purtroppo tratto beneficio.
Ulteriori ricerche sono in corso, alcune concentrate sul tumore al seno e alla prostata. « Il mio lavoro è rivolto al glioblastoma, un tumore del sistema nervoso centrale molto aggressivo, di cui ho cominciato a occuparmi quando lavoravo in Canada, paese che sta investendo parecchio su queste tecnologie», dice Persano, dispiaciuto che nel nostro paese manchi attenzione a questo settore della ricerca, che dopo la pandemia sembra ancora più promettente.
«Sono convinto che, con il successo dei vaccini a mrna contro Sars- COV-2, assisteremo a una vera rivoluzione, che riguarderà l’approccio al cancro come a molte altre malattie», si augura Huber. Ma che l’enorme investimento di risorse umane ed economiche messo in campo per contrastare la pandemia possa almeno lasciarci qualcosa di buono non può che essere l’auspicio di tutti.
Roberta Villa Giornalista con una laurea in Medicina. I suoi canali social, dove ha smascherato disinformazione e fake news, hanno avuto grande seguito durante la pandemia. Si è occupata per oltre vent’anni di salute sul Corriere della Sera e ha scritto i libri Vaccini. Il diritto di (non) avere paura (Pse, 2019) e Il guerriero gentile. La mia vita, le mie battaglie (con Silvio Garattini, Solferino, 2019).