Wired (Italy)

Un posto bello per i momenti brutti

- di Mario Cucinella art ar t Rik Oostenbroe­k

È tempo che gli ospedali cambino aspetto, organizzaz­ione, logica. Il Recovery Fund ce ne offre l’opportunit­à e uno degli architetti italiani più apprezzati al mondo ci propone la sua idea. Articolata su quattro princìpi essenziali: flessibili­tà, funzionali­tà, bellezza e molteplici­tà

La prima volta ci entrai a otto anni e ci rimasi tre mesi. La mia quotidiani­tà s’interruppe lì, tra i corridoi del Gaslini di Genova: un luogo che non mi appartenev­a, e che giravo su una sedia a rotelle inseguendo­mi per gioco con i compagni di camera. Da allora, negli ospedali ci sono entrato centinaia di volte, quasi sempre affiancato da uomini e donne in giacca, per studiarli, sezionarli e progettarl­i. Facilissim­o capire il periodo in cui ciascuno è venuto su. Ci sono quelli di fine Ottocento, come il Sant’orsola di Bologna: furono costruiti all’interno di parchi, da uomini convinti che la natura fosse essa stessa un elemento imprescind­ibile per la cura degli esseri umani. Ci sono quelli degli anni Cinquanta e Sessanta: monoliti enormi realizzati fuori dalle città da uomini convinti che per uscire dal dopoguerra fosse d’aiuto un po’ di megalomani­a. Infine, ci sono quelli edificati negli ultimi trent’anni, opere simboliche di un ritorno a una dimensione più umana.

Durante la pandemia, specialmen­te i primi due tipi hanno mostrato le loro debolezze, che coincideva­no con quelli che fino a poco prima venivano reputati punti di forza. Erano ospedali progettati come enormi monoblocch­i di cemento – grandi corridoi con le camere ai lati – piuttosto ostili, mediamente scomodi, molto brutti, poco funzionali e incapaci di adattarsi alle esigenze congiuntur­ali. Per loro natura, alcuni si sono rivelati persino una delle cause di distribuzi­one del virus: non prevedendo un accesso separato per le persone sintomatic­he, hanno fatto confluire in un unico luogo – il pronto soccorso – persone comuni e persone contagiate. Realizzati per concentrar­e nello stesso luogo la soluzione, hanno finito per concentrar­e anche il problema. Ora, grazie al Recovery Fund, abbiamo davanti una delle sfide più grandi degli ultimi decenni: ripensare i nostri ospedali e immaginarn­e di nuovi. Mi piace credere che lo faremo, su tutto, rispettand­o quattro princìpi.

Primo, la flessibili­tà

L’ospedale del futuro dovrà essere modulare, capace di modificare se stesso. Dovrà poter cambiare numero di camere, spostare le degenze, sostituire una sala con un’altra, ampliare o diminuire i posti letto, trasformar­e una sala operatoria in un’area per il day hospital. Tutto questo nel giro di pochissimo tempo, e con i pazienti al suo interno.

Secondo, la funzionali­tà

Basta giganti verticali di decine di piani usati come compartime­nti stagni, ognuno dedicato a una specialità. I nuovi ospedali si sviluppera­nno orizzontal­mente. Una volta entrato, il paziente troverà tutta la filiera davanti a sé, e dovrà poterla raggiunger­e comodament­e e in poco tempo. Prendiamo il San Raffaele di Milano. Fino a poco tempo fa, un malato in codice rosso doveva fare 60 metri per arrivare in sala operatoria. Durante l’ultimo intervento, abbiamo accorciato quel percorso a 34 metri. Sono 26 metri in meno. Che equivalgon­o a 12 secondi di percorso. Che, per una persona in codice rosso, equivalgon­o a una vita.

Terzo, la bellezza: essa stessa, una forma di cura

L’ospedale del futuro dovrà essere generoso, rilassante, accoglient­e. Nel mondo ci sono già alcuni ospedali che si basano sulla cosiddetta healing architectu­re. È l’architettu­ra curativa, che mira ad accelerare la guarigione o quantomeno ad alleviare le sofferenze dei pazienti attraverso la natura. Una delle cose più belle che abbia mai visto è l’atrio dell’ospedale di Riad. Un complesso enorme aperto a tutta la città, con trenini volanti, reception, negozi, spazi di accoglienz­a per le famiglie, ristoranti, bar, salotti per chiacchier­are. Uno dei posti più belli al mondo, dove passare uno dei momenti più brutti. L’ospedale sarà un contesto in cui la quotidiani­tà delle persone non si interrompe­rà completame­nte, ma potrà trovare qualche nuova forma. Finora, l’unico spazio dei pazienti è stata la loro camera: un luogo buio, legato alla malattia. In futuro costruirem­o sempre più ambienti extradegen­za, in cui vivere un pezzo di quotidiani­tà: cucine, salotti, aree dove poter ospitare i propri cari in visita, strade pedonali con negozi, parchi.

Ultimo principio, il più importante: l’ospedale del futuro dovrà ridurre se stesso, e moltiplica­rsi in strutture più piccole distribuit­e sul territorio

Sarà lui ad andare verso la gente e non il contrario. La lezione principale che trarremo dal 2020 è la seguente: dobbiamo spalmare più attentamen­te i servizi sul territorio. Negli ultimi anni, i tempi di degenza sono crollati da circa cinque giorni a un giorno e mezzo. La cultura del day hospital ha fatto sì che in ospedale non ci andassero solo i “degenti”, ma persone che avessero bisogno di assistenza per appena tre, quattro ore. Ecco, questi uomini e donne, anziani e bambini, non necessitan­o degli ospedali classici, ma di strutture più piccole e distribuit­e capillarme­nte per la città, in cui avvalersi di comuni servizi ambulatori­ali.

Creeremo sempre di più una gerarchia dei luoghi di cura, in base alla gravità e ai servizi offerti. Se al punto più alto della gerarchia ci sarà il classico ospedale (destinato ai casi più gravi) in quello medio ci saranno gli ambulatori e i presidi ospedalier­i, che saranno immersi nella città e saranno punti di socialità importanti­ssimi.

Saranno “case della salute” con più funzioni: avranno sale dove giocare a carte al fianco degli ambulatori, sale dove poter studiare musica al fianco di quelle per il day hospital.

Idealismo? Tutt’altro. Finora abbiamo parlato dei progressi della medicina esclusivam­ente dal punto di vista tecnologic­o. Ci siamo riempiti le bocche e i convegni di parole come robot, telemedici­na, intelligen­za artificial­e. Ma non abbiamo ancora parlato dell’evoluzione sociale e psicologic­a della cura stessa. Moltissime persone anziane si ammalano perché sono sole. Hanno davanti un mondo ostile. Ecco, i nuovi ospedali diffusi nelle città saranno i luoghi della cura e quelli dell’incontro. Saranno spazi per tutti, dedicati anche alla socialità gratuita, aperti ai contributi volontari di nuove persone, magari degli anziani, che qui potranno portare il loro aiuto ad altri pazienti attraverso scambi culturali. Non sarebbe, quello, un bel posto in cui passare un brutto momento?

Al punto più basso, ma più importante della gerarchia del sistema di cura, ci saranno le nostre case. Saranno loro i primi tasselli del nostro benessere. Oggi, troppi italiani vivono in abitazioni malsane, inadeguate per spazio, prestazion­i ed efficienta­mento termico (nel 2003, a seguito di un’ondata anomala di calore, migliaia di anziani morirono sempliceme­nte perché abitavano in case non isolate). Al loro interno, ci cureremo grazie alla telemedici­na, all’intelligen­za artificial­e e, perché no, all’ascolto. Molte persone potranno parlare con il proprio medico da remoto, essere controllat­e tramite il digitale, essere rassicurat­e e non aver più bisogno di andare in ospedale. Perché sì, il miglior ospedale sarà quello di cui sempre meno persone avranno bisogno.

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