Non è colpa delle cavallette
La pandemia è una scusa formidabile per rinviare decisioni importanti ma scomode. Come quella sulla sperimentazione animale, una pratica senza la quale non esisterebbe la ricerca clinica e neppure un vaccino, che in Italia resta permessa solo grazie a una
«Non ti ho tradito. Dico sul serio.
Ero rimasto senza benzina.
Avevo una gomma a terra.
Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight.
C’era il funerale di mia madre.
Era crollata la casa!
C’è stato un terremoto!
Una tremenda inondazione!
Le cavallette!
Non è stata colpa mia!
Lo giuro su Dio!».
Anche a distanza di quarant’anni, basta nominare le cavallette per evocare le migliori scuse della storia del cinema: John Belushi che spiega a Carrie Fisher perché l’ha abbandonata sull’altare, e questa è la scena più indimenticabile dei Blues Brothers. Alle cavallette ho pensato spesso nell’ultimo anno, ogni volta che la pandemia era la risposta a qualsiasi domanda. E poi quando, poche settimane dopo Wuhan, le cavallette sono diventate una minaccia letterale, una epidemia parallela. Meno presente nelle nostre preoccupazioni solo perché l’invasione riguarda direttamente l’africa e l’asia, con quella lungimiranza di chi sotterra i rifiuti tossici sotto alla propria villetta a schiera. Ed è un peccato, anche perché le due catastrofi si somigliano più di quanto potremmo pensare (proprio How a single locust becomes a plague si intitola un pezzo su Bbc News del 5 maggio scorso), a cominciare dalla loro prevedibilità e ricorrenza. La pandemia virale è una scusa formidabile per mettere in attesa tutto il resto, un ricatto morale perfetto. Se però l’emergenza giustifica criteri selettivi e priorità diversi dalle condizioni di non emergenza, la sua durata (della giustificazione) non può essere eterna. Sia per una questione ontologica – dopo quanto tempo una emergenza smette di essere tale per diventare cronica? – sia per la gravità delle conseguenze.
La più clamorosa distrazione riguarda proprio la sperimentazione animale, soprattutto quando la risoluzione dell’emergenza confida nel vaccino. E come si arriva ai vaccini? Trascurare la sperimentazione animale è forse la più dannosa delle procrastinazioni. È come costruire le case sulle pendici di un vulcano e sperare che questo non scoppi. Perché la sperimentazione è una condizione necessaria per la ricerca clinica. E la ricerca clinica è una condizione necessaria per la nostra salute. Ci è servita e ci serve per capire che cosa fa un patogeno e come si comporta una malattia nel nostro organismo – ancora prima come funzionano la circolazione sanguigna, la digestione e il sistema immunitario. Ci è servita per sviluppare più o meno tutti i farmaci, le tecniche chirurgiche e le terapie che hanno allungato e migliorato le nostre vite. Ci serve per mettere in commercio un farmaco o per considerare un trattamento sicuro (almeno abbastanza sicuro, non esiste niente di totalmente sicuro, nemmeno l’acqua potabile).
égiusto farne a meno? Cioè, sarebbe moralmente giusto smettere di usare gli animali per i nostri comodi? Lo chiedo perché un problema di molte discussioni sull’uso di modelli animali è il confondere il piano fattuale con quello morale. Se la risposta morale è più complicata, quella fattuale non lo è e chi dice il contrario si sbaglia come chi sostiene che la Terra è piatta. Tutti possono rispondere, ma ci sono delle regole da rispettare: non barare sulle premesse fattuali ed essere consapevoli delle conseguenze. In sintesi: smettere di usare gli animali nei laboratori significa fermare la ricerca scientifica. E possiamo deciderlo, per carità. Però senza illuderci che i modelli alternativi siano abbastanza sviluppati da poter essere davvero un’alternativa, e non ancora soltanto un piccolo spazio dove esercitarsi. In questo momento in cui tanto si parla dei vaccini per Sars- Cov-2, poi, è particolarmente ridicolo e ipocrita fare finta che non ci servano gli animali. Nel suo discorso in Senato dello scorso 2 dicembre Elena Cattaneo, nominata nel 2013 senatrice a vita per i suoi meriti scientifici, ha elencato i contributi della sperimentazione animale alla ricerca di un rimedio al virus. Soltanto rispetto ai vaccini: 157 candidati, 88 nella fase preclinica, 40 nella fase clinica 1, 17 nella fase 2, 13 nella 3.
« Ebbene, non uno di questi, non uno, avrebbe potuto procedere o procederà senza sperimentazione animale. Il che significa che, senza sperimentazione animale, non avremo mai un vaccino o una cura che ci permetta di sconfiggere Sars- Cov-2». E per questo la senatrice, dopo i numeri sui vaccini di oggi, ha parlato del come. Con Sars- Cov-1 e poi con Mers avevamo avuto un problema simile (alcuni virus spariscono in poco tempo, altri infettano il mondo intero; spesso non sappiamo perché, spesso non sappiamo niente per molto tempo).
Simile era stata anche la ricerca di una soluzione e la possibilità di ipotizzare che ci saranno altri coronavirus e che forse saranno più dannosi e mortali. Senza la ricerca passata, non avremmo oggi quei candidati. Non avremmo cominciato a capire come Sars-cov-2 aggredisce le nostre cellule e non potremmo cercare una difesa, se non a caso o confidando nella magia. Non vale solo per Sars- Cov-2, e chi ha scambiato la domanda di David Quammen – «si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale?» – per una incredibile previsione o, peggio, per un complotto, non ha idea di niente ( Spillover, 2014, Adelphi; con quella bella copertina nera è forse uno dei libri più fotografati e meno letti). La scoperta dell’uso del recettore Ace2 ci ha permesso di avere il primo modello sperimentale: il topo con Ace2 umano, cioè un topo geneticamente modificato. Quel vecchio topo transgenico è fondamentale per le scoperte attuali su Sars- Cov-2 e per la produzione di un vaccino. La sperimentazione passa anche tramite il furetto e per i primati non umani. Questi sono passaggi che non è possibile saltare o sostituire. Ci possono essere delle accelerazioni, come l’accorpamento delle fasi cliniche 1 e 2 per la sperimentazione sull’uomo (è quello che hanno fatto Fda ed Ema dopo aver avuto i primi dati su topi e macachi). È solo così che siamo arrivati ai vaccini. Anche il vaccino a Rna è passato per topi e macachi. Non ci sono alternative. A meno che non si voglia bloccare la ricerca – tutta la ricerca clinica, non solo quella sui vaccini – oppure non si sperimenti direttamente sull’uomo (è curiosa la sovrapposizione tra l’indignazione che provoca l’uso degli animali e lo scandalo che le cavie sarebbero gli umani che stiamo vaccinando; prima o poi dovremo scegliere uno scandalo e abbandonare quelli in contraddizione con il prescelto). I vaccini, poi, sono solo uno degli ultimi passaggi di un dominio più vasto. Ci sono naturalmente alcune domande che vengono prima. Come agisce e che cosa fa il nuovo virus? Possiamo riprendercelo o una volta infettati poi siamo immuni? Avrà effetti a lungo termine? La risposta corretta è che non lo sappiamo. O che ne sappiamo ancora molto poco.
Come ha detto Luca Guidotti – virologo, immunologo e vicedirettore scientifico del San Raffaele di Milano – al Sole 24 Ore: « Dobbiamo sempre tenere presente che fino a 10 mesi fa non conoscevamo questo virus, e che stiamo faticosamente iniziando a capire alcuni aspetti, ma ne restano moltissimi tutti da decrittare. Non sappiamo se si tratti di un virus che, una volta entrato nelle cellule dell’ospite (per esempio respiratorie o vascolari), le uccida direttamente, causando la malattia, oppure sia il sistema immunitario – e in primo luogo i linfociti T – a provocare la malattia, uccidendo le cellule. Non sappiamo poi se nell’organismo permangano tracce di virus, o se l’eliminazione di Sars- Cov-2 sia completa, una volta ottenuta la guarigione clinica. Queste distinzioni fanno una differenza enorme per le difese dell’ospite».
In questa incertezza è ovvio che sia difficile prendere decisioni. E come rimediare se non con la sperimentazione animale? Perché le analisi che si possono fare sugli uomini sono insufficienti e le autopsie sui corpi infetti – oltre alla difficoltà – possono mettere in luce solo alcune cose, farci capire gli effetti del virus, però ci dicono poco di quello che accade prima. Bisogna studiare i modelli animali, soprattutto animali con recettori umani (cioè animali transgenici) – che è quello che fanno nel laboratorio P3 del San Raffaele di Milano, unico in Italia. Ma per condurre questo tipo di ricerca servono soldi e, idealmente, consenso politico. Non serve fare finta di niente, compiacere le proteste delle associazioni animaliste e annuire quando mettono in discussione l’utilità della ricerca. Non serve che il Consiglio di Stato blocchi un progetto di ricerca finanziato dall’european research council (Erc). Forse, invece, serve sapere che le procedure di autorizzazione dello stesso Erc, del ministero della Salute o dei singoli enti di ricerca sono rigide e rigorose, non di certo disposte ad assecondare il capriccio di alcuni ricercatori insensibili al destino degli animali. Non serve ed è dannoso.
Eppure il progetto Lightup è stato bloccato per mesi. In sintesi, la storia è questa: nel 2017, i neuroscienziati Marco Tamietto e Luca Bonini vincono un Consolidator grant dell’erc. Il progetto di ricerca è stato valutato e approvato dall’erc (ovviamente), dal Comitato di bioetica dell’università di Torino, dall’organismo preposto al benessere animale dell’università di Parma (dove lavorano Tamietto e Bonini) e dal ministero della Salute.
Fino a qui tutto bene, ma Tamietto e Bonini non possono immaginare quello che sta per succedere. La Lav – che è un po’ il Codacons degli animalisti, ma usa foto spaventose di animali, quasi sempre di cani o scimmiette, e non sa o finge di non sapere che cosa succede nei laboratori – pianifica una “battaglia” contro l’uso dei macachi. I ricorsi al Tar falliscono, però il Consiglio di Stato per due volte ribalta la decisione del tribunale amministrativo e sospende in via cautelare Lightup. Non è molto rassicurante che il presidente del collegio del Consiglio di Stato che deve decidere sia Franco Frattini, che in precedenza ha definito “torture” le sperimentazioni e “altro che ricercatori” chi fa uso dei modelli animali mentre ritwittava posizioni indifendibili fattualmente – cioè che la ricerca non serve più e non è mai servita.
Questa storia è finita bene e dunque la sperimentazione procederà. Ma quanto tempo si è perso? Quante discussioni inutili? Quanti dibattiti tra copernicani e terrapiattisti? E quante volte ancora succederà che, con ragioni pretestuose e con premesse sbagliate, si chiamerà tortura la ricerca scientifica, spesso mentre si aspetta con fiducia l’arrivo del vaccino perché sperare, in fondo, che male fa?
Chissà se questa pandemia potrà almeno essere l’occasione per un dibattito più razionale e meno oppresso dall’emozione o dall’inutile empatia che ci fa pensare al nostro gatto sul tavolo settorio ogni volta che si parla di protocolli sperimentali (si badi che la maggior parte degli animali usati nella ricerca non sono gatti né cani né primati, bensì topi e ratti che eliminiamo dalle nostre città senza pensarci troppo).
Chissà se il brutale contatto con la realtà degli ultimi mesi ci permetterà di valutare razionalmente le conseguenze delle nostre decisioni. Perché possiamo anche decidere che usare gli animali sia una tortura, ma allora dovremmo smettere di chiedere soluzioni e rimedi che hanno bisogno della sperimentazione. E questo vale per la moratoria della direttiva europea e per le restrizioni del suo recepimento in Italia. Vale per il divieto della sperimentazione sugli embrioni umani, anche su quelli mica creati apposta, ma destinati all’annientamento perché non idonei o scartati – quindi meglio abbandonati e inutilizzati, secondo chissà quale principio morale, nonostante nel 2016 la Corte costituzionale avesse invitato il legislatore a normare questo limbo insensato. La biobanca di Milano è vuota mentre gli embrioni che nessuno userà rimangono dove sono. E vale per l’eutanasia e per il suicidio assistito ( la richiesta della Corte in questo caso è del 2019), per i diritti dei figli di genitori dello stesso sesso ( la Corte ha sollevato la questione, eppure tutto tace), per le relazioni fantasma sulle tecniche riproduttive e sull’attuazione della 194 e per la maternità surrogata. Insomma, è tutto rimandato alla fine di questa emergenza, la scusa perfetta per rendere eterna la nostra vita provvisoria, confidando nella nostra immortalità.
Chiara Lalli
Docente di Bioetica e Storia della medicina all’università La Sapienza di Roma, collabora con Wired, Corriere della Sera e Internazionale. Tra i suoi libri, Cavie? Sperimentazione e diritti animali ( Il Mulino, 2016) e Bioetica per perplessi ( Mondadori, 2016), scritti con l’epistemologo Gilberto Corbellini. Nel 2020, con Cecilia Sala, ha realizzato Polvere, podcast sull’omicidio Marta Russo.