Le prescrivo un algoritmo
Si chiamano terapie digitali e non sono semplici app per smartphone o tablet. Perché, come ogni altro farmaco, sono sottoposte a studi clinici e possono essere prescritte solo da un medico, con regolare ricetta. Negli Stati Uniti e in diversi paesi europei sono già una realtà, in Italia invece manca ancora una regolamentazione
«Signora, come ansiolitico provi allora Relaxtiumtech tre volte a settimana, a metà pomeriggio, sul suo tablet per 30 minuti. Ecco qui la ricetta per scaricare l’applicazione, e ci risentiamo tra 12 settimane». Il nome è di fantasia, ma la prescrizione è del tutto verosimile. Stiamo parlando dei Digital therapeutics (Dtx), prodotti medicali approvati, lanciati sul mercato e di natura esclusivamente digitale, come un algoritmo, un software o un’app per smartphone. In Italia non ne esistono ancora, almeno in forma autorizzata, ma nel mondo gli esempi si moltiplicano.
In Germania, da quando è entrata in vigore la nuova regolamentazione 2020, sono già disponibili cinque terapie, contro i disturbi d’ansia o per chi soffre di acufene, prescrivibili dai medici e in parte rimborsate dallo Stato. In Francia, lo scorso giugno è arrivato il via libera dell’authority nazionale a un software per monitorare l’evoluzione post-operatoria del tumore al polmone. Anche oltremanica si è già partiti nella stessa direzione. Negli Stati Uniti, il primo caso della storia – Deprexis, contro la depressione – era già oggetto di studi clinici nel 2007. E il primo ok in assoluto della Fda (la Food and Drug Administration, l’ente governativo che regolamenta i prodotti farmaceutici, ndr), nel 2017, è stato per l’app Reset, che contrasta le dipendenze da cocaina, cannabis e alcol.
L’idea che accanto ai principi attivi farmacologici e biologici ce ne possano essere altri è ormai affermata, ma non sempre facile da accettare. «Il nome stesso, terapie digitali, si è rivelato azzeccato: chi non conosce l’argomento intuisce che si tratta di strumenti terapeutici, potenzialmente curativi», spiega Eugenio Santoro, responsabile del Laboratorio di informatica medica all’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs. «Rende chiaro il contesto ai neofiti e alla classe medica, che finora ha visto gli strumenti digitali soprattutto come una moda, un accessorio. Il medico è abituato a utilizzare strumenti validati dalla comunità scientifica, e la parola terapia lascia capire che dietro ci sono sperimentazioni cliniche randomizzate con tutti i crismi, e che vengono coinvolte le agenzie regolatorie come avviene per i farmaci tradizionali».
Ultima chiamata per l’italia
Perché le terapie digitali diventino davvero the next big thing nel campo della salute, c’è bisogno di superare la fase pionieristica attraverso un inquadramento normativo. In Italia, in particolare, è tempo di porsi seriamente le domande giuste, occupandosi di questioni che per le terapie tradizionali sono ovvie, ma che richiedono risposte ad hoc nel caso di quelle digitali. Come organizzare le sperimentazioni cliniche, e come regolarle? Quali devono essere le condizioni per la messa in commercio? Quando prevedere la rimborsabilità totale, di fascia A, o una di altro genere? Chi le può prescrivere? L’interesse su questi temi c’è. Sia l’istituto superiore di sanità sia l’agenzia italiana del farmaco hanno tavoli di lavoro attivi, poiché esistono strumenti digitali che hanno un’efficacia clinica dimostrata e che meritano di essere inseriti nel contesto assistenziale. « È fondamentale distinguere queste soluzioni dal più ampio campo delle app per la salute e per il benessere», chiarisce Victor Savevski, Chief innovation officer del gruppo Humanitas Healthcare. «Serve chiarezza su che cosa siano i Dtx e su quale impatto abbiano sul percorso clinico, raccogliendo sempre più studi ed evidenze per certificarne efficacia e sicurezza ».
Peraltro, proprio all’inizio dell’anno, la rivista Tendenze nuove ha pubblicato gratuitamente online il volume Terapie digitali, una opportunità per l’italia, che raccoglie le istanze di tutti i protagonisti della filiera – dalle società scientifiche alle startup, dagli attori imprenditoriali a quelli istituzionali – e mette così insieme idee diverse su gestione e normative. Eugenio Santoro ne è uno dei principali autori: « In Italia ci sono gruppi di lavoro ed esperienze che si stanno realizzando, ma nulla potrà vedere la luce finché non ci sarà una formalizzazione. È difficile fare previsioni, però il tempo stringe: o succede qualcosa di significativo entro i prossimi due anni, o il vero rischio è che l’italia resti esclusa dal gruppo dei produttori. Il problema regolatorio si porrà in ogni caso, ma ci troveremmo a dover gestire qualcosa di realizzato all’estero, perdendo l’opportunità di diventare protagonisti e autorelegandoci al ruolo di clienti e fruitori ».
Ha il foglietto illustrativo, eppure è un’app
L’obiettivo delle terapie digitali è indurre cambiamenti nello stile di vita e modifiche cognitivo-comportamentali. Va da sé che l’area più battuta sia la salute mentale, dai disturbi psicologici alle dipendenze, dai deficit di attenzione all’insonnia. Ai quali si aggiunge un ventaglio di malattie croniche come diabete o patologie respiratorie, in cui la malattia è imputabile anche o soprattutto a un errato stile di vita. Una terapia digitale può ridurre il livello di rischio o l’intensità dei sintomi e, come accade con i pazienti diabetici, agire per intensificare l’esercizio fisico. Qui si colloca la maggior parte delle soluzioni proposte, esiste già un’ampia letteratura scientifica e sono state raccolte le maggiori evidenze cliniche.
« A oggi le applicazioni più interessanti e innovative si pongono non solo nell’ambito della prevenzione e del miglioramento dello stile di vita, ma anche come integrazione e alternativa alle terapie tradizionali », spiega Savevski. « Alla luce dell’emergenza pandemica, la continuità di cura – in presenza o da remoto – è fondamentale per non lasciare indietro i pazienti e per non trascurare le malattie. Il risultato può essere l’aumento dell’aderenza terapeutica, l’ottimizzazione del trattamento farmacologico, la riabilitazione o il supporto psicologico». Come forma, la terapia può avere le sembianze di un’applicazione per smartphone o per tablet, di un sito web o persino di un videogioco. Per esempio, ce n’è una che consiste in un luogo d’incontro online in cui i pazienti in chemioterapia segnalano gli effetti avversi e i problemi quotidiani, facendo intervenire un oncologo quando opportuno. E uno studio clinico randomizzato durato due anni ha già dimostrato che questo tipo di soluzione aumenta la sopravvivenza media.
Il fatto che siano qualcosa di immateriale, magari trasmesso via web, non significa che l’adozione sia priva di regole, o comunque lasciata al caso. « A rendere tale una terapia digitale non è solo lo strumento, ma proprio per ricalcare le modalità terapeutiche tradizionali è fondamentale avere un dosaggio ben definito e uno schema di trattamento», chiarisce Santoro. «Ci sono foglietti illustrativi che specificano quanto tempo e quanti giorni dura l’assunzione». Le indicazioni d’uso e la posologia devono coincidere con quelle utilizzate nella sperimentazione clinica randomizzata: le deviazioni, dunque, non sono ammesse. « Essenziale è che solo il medico possa prescriverla e che non si possa acquistare e utilizzare a piacere», prosegue. « Almeno per ora, il concetto di automedicazione qui non esiste. Non è detto che i modelli di business futuri non possano portare a terapie digitali analoghe ai farmaci da banco, ma se così fosse dovrà comunque esserci un foglietto illustrativo che spieghi come, quando e per quanto farne uso».
Grandi potenzialità, con o senza l’effetto pandemia
Se la crescita annua del 20% segnata da questo mercato nel 2019 induceva già all’ottimismo, l’emergenza sanitaria ha avuto un ulteriore effetto propulsivo, che si è sommato all’accelerazione digitale, con benefici su ogni applicazione nel campo della salute, dalla telemedicina alla comunicazione medico-paziente, fino all’universo della digital health. Inoltre, c’è sempre più richiesta di assistenza a livello psicologico e comportamentale, e siccome molti Dtx orbitano intorno alla salute mentale, sono ottimi candidati per fare da complemento ai trattamenti tradizionali e al consulto faccia a faccia con il medico.
« È difficile avere dati complessivi sulle terapie digitali, ma il loro utilizzo si è impennato in questo periodo. Se nel pre-pandemia il giro d’affari era di 1,7 miliardi di dollari l’anno, ora le proiezioni parlano
di 9,4 miliardi entro il 2028», spiega Santoro. Un valore economico cui contribuiscono alcune caratteristiche peculiari. « Il vantaggio più significativo è la personalizzazione, che porta un maggior coinvolgimento del paziente», specifica Savevski. «Con il monitoraggio da remoto, si può comunicare con il medico in maniera strutturata e registrare le proprie condizioni. E c’è la possibilità di soddisfare esigenze dimenticate o sottostimate: chi soffre di malattie croniche, per esempio, ha bisogno di assistenza continuativa, e la gestione quotidiana spesso ricade sulle famiglie. In questo senso, le terapie digitali sono un ausilio in più ».
Dalla spinta gentile all’assuefazione, un equilibrio delicato
Rispetto a una molecola farmacologica o a una terapia cellulare, il meccanismo d’azione del digitale è più complesso. Presuppone il coinvolgimento dell’utente, e fonda il proprio effetto benefico sul miglioramento degli stili di vita. « Perché questo sistema sia attraente fin dall’inizio, c’è bisogno di interfacce grafiche semplici e invitanti, e di un lavoro parallelo sul fronte delle associazioni dei pazienti, che vanno coinvolte per far conoscere e usare queste innovazioni », racconta Santoro. « Il fatto che siano basate sulla tecnologia è un vantaggio e uno svantaggio insieme: il rischio è che, passata l’euforia del primo momento, dovuta all’effetto novità, si smetta di usarle perché non si riceve un supporto continuo oppure perché ci si annoia o, ancora, si diventa assuefatti. Problemi dei quali gli operatori sanitari e gli sviluppatori devono tenere conto».
«Un grande limite, al di là dell’ambito regolatorio, è l’alfabetizzazione digitale dei pazienti », aggiunge Savevski. « Non a caso, gran parte degli investimenti non si focalizza tanto sulla terapia digitale in sé, ma su come accompagnare il paziente nell’utilizzo».
Uno dei filoni più recenti è la realtà virtuale o aumentata, con studi che si basano su ambienti immersivi per riproporre Dtx già visti. Nell’ambito della salute mentale, per esempio, sono in via di sviluppo diverse applicazioni, nessuna delle quali ancora impiegata. «Con l’università Bicocca di Milano è in corso uno studio di tesi per organizzare i dati sugli strumenti e sui risultati ottenuti », anticipa Santoro. Si tratta di tecnologie ancora tutte da esplorare, anche se in fondo potrebbero persino non essere indispensabili. « Le terapie digitali finora più efficaci si basano su tecnologie basiche, come messaggi motivazionali, confronto con i pari e soluzioni low tech », conclude Santoro. « Bastano algoritmi semplici per raggiungere buoni risultati: è lo stesso concetto che sta dietro a moltissime strategie di prevenzione sanitaria ».