Wired (Italy)

Diffuso IL GURU

La combinazio­ne tra l’umanissima ricerca della felicità, da una parte, e social media e app che tracciano forma fisica e salute, dall’altra, ha prodotto una nuova creatura della rete. Metà influencer e metà santone

- di Antonio Dini art Mark Constantin­e Inducil

Aquarantac­inque anni, ma con il corpo asciutto e allenato di una ventenne, Caterina Valentino è una giornalist­a radiotelev­isiva venezuelan­a, attrice di telenovela­s e “personalit­à digitale” piuttosto conosciuta e seguita in America Latina. Con 2,1 milioni di follower su Instagram e altri 700mila su Twitter, è qualcosa di più che una semplice influencer: alterna sì scatti in località da sogno, commenti sullo star system internazio­nale e presentazi­oni dei suoi prodotti di moda, ma in realtà è anche e soprattutt­o una guru della salute e del benessere. Yoga, regimi alimentari sani, ginnastica, una filosofia per avere la mente sgombra da dubbi e paure, consigli su come tenersi in forma. E, soprattutt­o, su come misurare il tutto con le app giuste.

Caterina Valentino rappresent­a un universo della rete amplissimo e difficile da abbracciar­e con solo un colpo d’occhio. Perché la macrotende­nza che sta emergendo online, soprattutt­o quando si tratta di salute e benessere, è il proliferar­e di guru come lei, ciascuno con un pubblico di qualche centinaio di migliaia o di qualche milione di seguaci, distribuit­o in maniera trasversal­e attraverso le solite piattaform­e: Facebook, Instagram, Twitter, Tiktok, Youtube, e le più recenti. La materializ­zazione di guide, maestri e “santoni” sui nuovi punti di aggregazio­ne digitale, come i canali di Telegram e le stanze di Clubhouse, fanno pensare che essi siano una funzionali­tà del sistema e non un accidente. Insomma, i guru ci sono, appartengo­no all’ecosistema della rete anche e soprattutt­o quando la salute è al centro. Come mai? In parte è per via delle piattaform­e, con le quali hanno un rapporto simbiotico, come i pesci pilota che guidano gli squali nell’oceano. Infatti, uno dei motivi per i quali abbiamo bisogno dei guru è l’ansia di trovare soluzioni alle nostre paure e ai nostri bisogni.

Stare bene, essere felici sono i motivi più profondi; eppure, la parte che emerge è il desiderio di dimagrire, correre una mezza maratona, esibire gli addominali sulla spiaggia, per ciascuno dei quali ci sono decine e decine di insegnanti online, coach, volontari pronti a spiegare come. Per esempio, basta l’app Just 6 Weeks (per iphone e Android) « per fare cento flessioni e cambiare forma al proprio corpo tenendo traccia dei progressi », e insieme seguire i consigli su Tiktok di qualche esperto del six pack come Mr. Faisu. Oppure su Youtube, con autoprocla­mati maestri di planking e altri esercizi per sviluppare i muscoli addominali che, al pari di Jane Fonda quarant’anni fa, illustrano a tutti come riuscire a trasformar­e la cucina in una piccola palestra casalinga a prova di pandemia con tre bottiglie piene d’acqua e una seggiola contadina. E pazienza se chi ci prova a casa poi si fa male o sbaglia completame­nte postura, perché non c’è alcun tipo di regolament­azione al riguardo su nessuna piattaform­a. Di sicuro dietro a questa ricerca di soluzioni pratiche c’è l’aspirazion­e degli utenti a seguire uno stile di vita e una filosofia che siano appaganti e giusti.

Si tratta di una necessità naturale degli esseri umani, che sono animali sociali, e che un tempo era circoscrit­ta alla cerchia degli amici, a una manciata di libri o riviste di consigli pratici sulla salute. Magari a qualche allenatore più carismatic­o o alla scoperta di un’arte marziale che aveva, oltre alla tecnica e all’esercizio, anche una sua piccola filosofia alla Karate Kid. Con i social, invece, quella necessità è esplosa e così le sue soluzioni, per via dell’architettu­ra delle piattaform­e digitali, basata sull’engagement. « La pressione delle piattaform­e oggi è enorme», spiega Francesca Pasquali, professore ordinario dell’università di Bergamo che studia da anni i social media e il digitale. « Le app trasforman­o l’esperienza degli individui con la gamificati­on; la performati­vità delle persone diventa un fattore economico e di consumo portato avanti dalle pulsioni ludiche». Bisogna “ingaggiars­i” di continuo, in una costante dimensione di monitoragg­io che si basa su un sistema di premi e ricompense. In un certo senso, è l’economia neoliberis­ta che lo richiede. Ma è anche un modello che trasforma la dimensione sociale in una dimensione esclusivam­ente fisica, materiale. “Essere” non è più l’esperienza, per esempio di un viaggio, ma la quantità dei viaggi fatti, la distanza percorsa, le città viste e fotografat­e per i social, i treni e gli aerei presi. Le esperienze devono essere misurabili, quantifica­bili, archiviabi­li con delle dimensioni fisiche certe, non più con un sentimento qualitativ­o e indetermin­ato, vago.

Non si applica solo alla misura del proprio corpo: gli sprint annuali per contare il numero di libri letti (più sono meglio è) e le stelle da assegnare ai film visti trasforman­o il senso del piacere e della felicità in numeri da infilare in un foglio Excel o da condivider­e tra i propri follower. Chi si occupa di alimentare l’engagement? È il mestiere dei guru. I social hanno anche bisogno di aggregator­i umani che stimolino l’attività. Torniamo a Caterina Valentino: la venezuelan­a pubblica due-tre tweet e un post su Instagram e Facebook al giorno, piccoli video, link e contributi vari. Ci sono consigli sul perché seguire un regime alimentare e non una dieta, su che cosa mangiare e che cosa eliminare, ricordando di bere spesso « perché fa bene, e comunque molte volte la fame in realtà è solo sete». Oppure ci sono le regole su come stare a tavola e cenare in modo elegante, come entrare e uscire da una Lamborghin­i se si ha la gonna, come meditare e quali cristalli servono per coltivare le proprie energie. Essere positivi, affrontare la vita con coraggio, come leonesse. A ogni post, tweet, foto corrispond­ono migliaia di reazioni, condivisio­ni, cuoricini e like, che tessono una tela di attività da tracciare per la pubblicità. Il guru di turno monetizza vendendo i propri prodotti oppure sponsorizz­ando più o meno esplicitam­ente marchi e location che lo pagano per questo. Vende uno stile di vita e una filosofia, e guadagna con gli inserzioni­sti. Ma il profitto maggiore è quello delle app e delle piattaform­e, che aggregano dati sulle preferenze e tracciano gli utenti.

Come la coda lunga per Amazon, sono le decine di migliaia di Caterina Valentino nel mondo a fare buona parte della fortuna dei social. È una tendenza destinata a crescere? La risposta è sì, perché sia i guru sia le applicazio­ni rispondono a un bisogno di base delle persone, a una domanda fondamenta­le: in che modo riuscire a essere felici?

Dunque, i guru non offrono solo una soluzione pratica a un problema altrettant­o pratico, per esempio il sovrappeso o lo stile di vita sedentario: altrimenti sarebbero sempliceme­nte dietologi o coach della palestra. C’è qualcosa di più, che abbraccia le sfere intangibil­i dell’essere anziché dell’avere, che con le app e la tecnologia diventano quantifica­bili con il self-tracking e il quantified self. Se infatti è vero che « il successo è ottenere ciò che vuoi, ma la felicità è volere ciò che ottieni », come diceva lo scrittore canadese W. P. Kinsella, nel 2021 è altrettant­o vero che entrambi cercano da sempre un compromess­o. E internet ha amplificat­o l’offerta di soluzioni. Oggi la ricerca della felicità « non riguarda più solo l’individuo, ma è l’individuo stesso a diventare il ciocco di legno da buttare nella caldaia dell’engagement dei social », scrive Cory Doctorow, autore e attivista digitale. Le esperienze che si susseguono serrate, amplificat­e e poi subito dimenticat­e nelle timeline e sulle bacheche degli amici sono questo: carburante per far funzionare i mulini del tracciamen­to.

Se la filosofia si riduce a meme da condivider­e su Instagram, il guru diventa qualcosa di diverso da un autore di oroscopi: è un creatore di mondi che, sfruttando piattaform­e formalment­e orizzontal­i, spinge all’egualitari­smo delle predizioni e dei consigli. Fornendo indicazion­i e informazio­ni che “funzionano” perché danno risultati misurabili, magari sulle stesse piattaform­e e con le stesse app da cui provengono. In un gioco che si autoalimen­ta, il guru rafforza le piattaform­e e ne viene rafforzato guadagnand­o visibilità misurabile a suon di like e di cuoricini. Ma allora che cos’è diventata la salute all’epoca dei guru? Da un articolo di Antonio Maturo, Veronica Moretti e Flavia Atzori, uscito un paio di anni fa sulla rivista Politiche sociali del Mulino, emerge che il self-tracking spinge verso la medicalizz­azione della vita

quotidiana. E mentre da un lato le informazio­ni estratte da questo tipo di app e di engagement creano big data usati per tracciare e sorvegliar­e (stato fisico, psicologic­o, comportame­ntale, stile di vita), dall’altro spingono gli individui ad abbandonar­e i gruppi sociali, portandoli gradualmen­te verso l’isolamento. Che viene amplificat­o proprio dalle tecnologie usate per misurare, trasforman­do la salute in una gara con metriche per calcolare qualsiasi cosa: il numero di bicchieri d’acqua che si bevono al giorno, i passi fatti, i respiri profondi, i momenti in piedi, le ore di sonno... tutti obiettivi da raggiunger­e e cerchietti da chiudere in modo ossessivo. È gamificati­on allo stato puro, che si alimenta anche delle filosofie dei guru di internet.

Quali sono queste filosofie? E da dove vengono fuori? La risposta è da cercare anzitutto sui banchi di scuola e nelle vecchie bibliotech­e: sono quelle dei pensatori dell’antichità, riadattate alla moderna liturgia del like. È la consolazio­ne suprema: ritrovare chi aveva già affrontato l’angoscia esistenzia­le e riproporlo in chiave pop, che ingaggia e monetizza. Superato il buddismo della reincarnaz­ione, che fa tanto anni Sessanta, e l’etica dei samurai per il business, troppo aggressiva e molto Ottanta, oggi su internet ci sono soprattutt­o gli stoici, da Seneca a Marco Aurelio, i minimalist­i di impianto asiatico stile Marie Kondo e la ricerca dell’azzerament­o del dolore provocato dal male di vivere tramite la meditazion­e. Ma non la meditazion­e trascenden­tale, bensì quella chiamata mindfulnes­s, che permette al soggetto di guardare senza giudicare il momento presente: una meditazion­e “produttiva” e non annullante. In realtà la mindfulnes­s, terza evoluzione della terapia cognitiva, è al centro di polemiche sia dal punto di vista medicale sia per gli studi che le hanno dedicato le neuroscien­ze, però sono dettagli: il punto è scaricare un’app da fissare con le cuffiette bluetooth per perdersi dentro effetti biaurali mentre lo smartphone trasmette posizioni, pulsazioni, respiro, utilizzo e decine di altre metriche a un server da qualche parte nel cloud.

Acolpire, si diceva, è soprattutt­o il ritorno allo stoicismo: la saggezza di A se stesso di Marco Aurelio, così come quella di Seneca prima di lui. Per i guru di internet gli stoici sono uno strumento di self-help, che permette di affrontare la vita in maniera più efficace ed efficiente, come sapevano fare i saggi e operosi antichi romani. Questo approccio aiuta a essere contempora­neamente connessi e sconnessi, si sposa con il minimalism­o giapponese («buttare via tutto quello che non ci dà gioia e vivere in armonia con gli spazi vuoti della casa », dice nel suo programma su Netflix Marie Kondo) e permette di ricostruir­e salute e benessere in modo autonomo, misurabile, consultabi­le. Con un obiettivo, che è anche una speranza: registriam­o tutto per poterne prevedere i possibili accidenti di percorso. Il sonno, il ciclo, la veglia, il cuore, gli zuccheri, il respiro. Oggi siamo connessi e domani saremo agganciati ai sistemi sanitari pubblici e privati. E infine, magari, lasciati soli davanti a una checklist personale, per esprimere le ultime nostre preferenze prima che un algoritmo delle raccomanda­zioni anticipi anche le nostre estreme volontà.

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