Diffuso IL GURU
La combinazione tra l’umanissima ricerca della felicità, da una parte, e social media e app che tracciano forma fisica e salute, dall’altra, ha prodotto una nuova creatura della rete. Metà influencer e metà santone
Aquarantacinque anni, ma con il corpo asciutto e allenato di una ventenne, Caterina Valentino è una giornalista radiotelevisiva venezuelana, attrice di telenovelas e “personalità digitale” piuttosto conosciuta e seguita in America Latina. Con 2,1 milioni di follower su Instagram e altri 700mila su Twitter, è qualcosa di più che una semplice influencer: alterna sì scatti in località da sogno, commenti sullo star system internazionale e presentazioni dei suoi prodotti di moda, ma in realtà è anche e soprattutto una guru della salute e del benessere. Yoga, regimi alimentari sani, ginnastica, una filosofia per avere la mente sgombra da dubbi e paure, consigli su come tenersi in forma. E, soprattutto, su come misurare il tutto con le app giuste.
Caterina Valentino rappresenta un universo della rete amplissimo e difficile da abbracciare con solo un colpo d’occhio. Perché la macrotendenza che sta emergendo online, soprattutto quando si tratta di salute e benessere, è il proliferare di guru come lei, ciascuno con un pubblico di qualche centinaio di migliaia o di qualche milione di seguaci, distribuito in maniera trasversale attraverso le solite piattaforme: Facebook, Instagram, Twitter, Tiktok, Youtube, e le più recenti. La materializzazione di guide, maestri e “santoni” sui nuovi punti di aggregazione digitale, come i canali di Telegram e le stanze di Clubhouse, fanno pensare che essi siano una funzionalità del sistema e non un accidente. Insomma, i guru ci sono, appartengono all’ecosistema della rete anche e soprattutto quando la salute è al centro. Come mai? In parte è per via delle piattaforme, con le quali hanno un rapporto simbiotico, come i pesci pilota che guidano gli squali nell’oceano. Infatti, uno dei motivi per i quali abbiamo bisogno dei guru è l’ansia di trovare soluzioni alle nostre paure e ai nostri bisogni.
Stare bene, essere felici sono i motivi più profondi; eppure, la parte che emerge è il desiderio di dimagrire, correre una mezza maratona, esibire gli addominali sulla spiaggia, per ciascuno dei quali ci sono decine e decine di insegnanti online, coach, volontari pronti a spiegare come. Per esempio, basta l’app Just 6 Weeks (per iphone e Android) « per fare cento flessioni e cambiare forma al proprio corpo tenendo traccia dei progressi », e insieme seguire i consigli su Tiktok di qualche esperto del six pack come Mr. Faisu. Oppure su Youtube, con autoproclamati maestri di planking e altri esercizi per sviluppare i muscoli addominali che, al pari di Jane Fonda quarant’anni fa, illustrano a tutti come riuscire a trasformare la cucina in una piccola palestra casalinga a prova di pandemia con tre bottiglie piene d’acqua e una seggiola contadina. E pazienza se chi ci prova a casa poi si fa male o sbaglia completamente postura, perché non c’è alcun tipo di regolamentazione al riguardo su nessuna piattaforma. Di sicuro dietro a questa ricerca di soluzioni pratiche c’è l’aspirazione degli utenti a seguire uno stile di vita e una filosofia che siano appaganti e giusti.
Si tratta di una necessità naturale degli esseri umani, che sono animali sociali, e che un tempo era circoscritta alla cerchia degli amici, a una manciata di libri o riviste di consigli pratici sulla salute. Magari a qualche allenatore più carismatico o alla scoperta di un’arte marziale che aveva, oltre alla tecnica e all’esercizio, anche una sua piccola filosofia alla Karate Kid. Con i social, invece, quella necessità è esplosa e così le sue soluzioni, per via dell’architettura delle piattaforme digitali, basata sull’engagement. « La pressione delle piattaforme oggi è enorme», spiega Francesca Pasquali, professore ordinario dell’università di Bergamo che studia da anni i social media e il digitale. « Le app trasformano l’esperienza degli individui con la gamification; la performatività delle persone diventa un fattore economico e di consumo portato avanti dalle pulsioni ludiche». Bisogna “ingaggiarsi” di continuo, in una costante dimensione di monitoraggio che si basa su un sistema di premi e ricompense. In un certo senso, è l’economia neoliberista che lo richiede. Ma è anche un modello che trasforma la dimensione sociale in una dimensione esclusivamente fisica, materiale. “Essere” non è più l’esperienza, per esempio di un viaggio, ma la quantità dei viaggi fatti, la distanza percorsa, le città viste e fotografate per i social, i treni e gli aerei presi. Le esperienze devono essere misurabili, quantificabili, archiviabili con delle dimensioni fisiche certe, non più con un sentimento qualitativo e indeterminato, vago.
Non si applica solo alla misura del proprio corpo: gli sprint annuali per contare il numero di libri letti (più sono meglio è) e le stelle da assegnare ai film visti trasformano il senso del piacere e della felicità in numeri da infilare in un foglio Excel o da condividere tra i propri follower. Chi si occupa di alimentare l’engagement? È il mestiere dei guru. I social hanno anche bisogno di aggregatori umani che stimolino l’attività. Torniamo a Caterina Valentino: la venezuelana pubblica due-tre tweet e un post su Instagram e Facebook al giorno, piccoli video, link e contributi vari. Ci sono consigli sul perché seguire un regime alimentare e non una dieta, su che cosa mangiare e che cosa eliminare, ricordando di bere spesso « perché fa bene, e comunque molte volte la fame in realtà è solo sete». Oppure ci sono le regole su come stare a tavola e cenare in modo elegante, come entrare e uscire da una Lamborghini se si ha la gonna, come meditare e quali cristalli servono per coltivare le proprie energie. Essere positivi, affrontare la vita con coraggio, come leonesse. A ogni post, tweet, foto corrispondono migliaia di reazioni, condivisioni, cuoricini e like, che tessono una tela di attività da tracciare per la pubblicità. Il guru di turno monetizza vendendo i propri prodotti oppure sponsorizzando più o meno esplicitamente marchi e location che lo pagano per questo. Vende uno stile di vita e una filosofia, e guadagna con gli inserzionisti. Ma il profitto maggiore è quello delle app e delle piattaforme, che aggregano dati sulle preferenze e tracciano gli utenti.
Come la coda lunga per Amazon, sono le decine di migliaia di Caterina Valentino nel mondo a fare buona parte della fortuna dei social. È una tendenza destinata a crescere? La risposta è sì, perché sia i guru sia le applicazioni rispondono a un bisogno di base delle persone, a una domanda fondamentale: in che modo riuscire a essere felici?
Dunque, i guru non offrono solo una soluzione pratica a un problema altrettanto pratico, per esempio il sovrappeso o lo stile di vita sedentario: altrimenti sarebbero semplicemente dietologi o coach della palestra. C’è qualcosa di più, che abbraccia le sfere intangibili dell’essere anziché dell’avere, che con le app e la tecnologia diventano quantificabili con il self-tracking e il quantified self. Se infatti è vero che « il successo è ottenere ciò che vuoi, ma la felicità è volere ciò che ottieni », come diceva lo scrittore canadese W. P. Kinsella, nel 2021 è altrettanto vero che entrambi cercano da sempre un compromesso. E internet ha amplificato l’offerta di soluzioni. Oggi la ricerca della felicità « non riguarda più solo l’individuo, ma è l’individuo stesso a diventare il ciocco di legno da buttare nella caldaia dell’engagement dei social », scrive Cory Doctorow, autore e attivista digitale. Le esperienze che si susseguono serrate, amplificate e poi subito dimenticate nelle timeline e sulle bacheche degli amici sono questo: carburante per far funzionare i mulini del tracciamento.
Se la filosofia si riduce a meme da condividere su Instagram, il guru diventa qualcosa di diverso da un autore di oroscopi: è un creatore di mondi che, sfruttando piattaforme formalmente orizzontali, spinge all’egualitarismo delle predizioni e dei consigli. Fornendo indicazioni e informazioni che “funzionano” perché danno risultati misurabili, magari sulle stesse piattaforme e con le stesse app da cui provengono. In un gioco che si autoalimenta, il guru rafforza le piattaforme e ne viene rafforzato guadagnando visibilità misurabile a suon di like e di cuoricini. Ma allora che cos’è diventata la salute all’epoca dei guru? Da un articolo di Antonio Maturo, Veronica Moretti e Flavia Atzori, uscito un paio di anni fa sulla rivista Politiche sociali del Mulino, emerge che il self-tracking spinge verso la medicalizzazione della vita
quotidiana. E mentre da un lato le informazioni estratte da questo tipo di app e di engagement creano big data usati per tracciare e sorvegliare (stato fisico, psicologico, comportamentale, stile di vita), dall’altro spingono gli individui ad abbandonare i gruppi sociali, portandoli gradualmente verso l’isolamento. Che viene amplificato proprio dalle tecnologie usate per misurare, trasformando la salute in una gara con metriche per calcolare qualsiasi cosa: il numero di bicchieri d’acqua che si bevono al giorno, i passi fatti, i respiri profondi, i momenti in piedi, le ore di sonno... tutti obiettivi da raggiungere e cerchietti da chiudere in modo ossessivo. È gamification allo stato puro, che si alimenta anche delle filosofie dei guru di internet.
Quali sono queste filosofie? E da dove vengono fuori? La risposta è da cercare anzitutto sui banchi di scuola e nelle vecchie biblioteche: sono quelle dei pensatori dell’antichità, riadattate alla moderna liturgia del like. È la consolazione suprema: ritrovare chi aveva già affrontato l’angoscia esistenziale e riproporlo in chiave pop, che ingaggia e monetizza. Superato il buddismo della reincarnazione, che fa tanto anni Sessanta, e l’etica dei samurai per il business, troppo aggressiva e molto Ottanta, oggi su internet ci sono soprattutto gli stoici, da Seneca a Marco Aurelio, i minimalisti di impianto asiatico stile Marie Kondo e la ricerca dell’azzeramento del dolore provocato dal male di vivere tramite la meditazione. Ma non la meditazione trascendentale, bensì quella chiamata mindfulness, che permette al soggetto di guardare senza giudicare il momento presente: una meditazione “produttiva” e non annullante. In realtà la mindfulness, terza evoluzione della terapia cognitiva, è al centro di polemiche sia dal punto di vista medicale sia per gli studi che le hanno dedicato le neuroscienze, però sono dettagli: il punto è scaricare un’app da fissare con le cuffiette bluetooth per perdersi dentro effetti biaurali mentre lo smartphone trasmette posizioni, pulsazioni, respiro, utilizzo e decine di altre metriche a un server da qualche parte nel cloud.
Acolpire, si diceva, è soprattutto il ritorno allo stoicismo: la saggezza di A se stesso di Marco Aurelio, così come quella di Seneca prima di lui. Per i guru di internet gli stoici sono uno strumento di self-help, che permette di affrontare la vita in maniera più efficace ed efficiente, come sapevano fare i saggi e operosi antichi romani. Questo approccio aiuta a essere contemporaneamente connessi e sconnessi, si sposa con il minimalismo giapponese («buttare via tutto quello che non ci dà gioia e vivere in armonia con gli spazi vuoti della casa », dice nel suo programma su Netflix Marie Kondo) e permette di ricostruire salute e benessere in modo autonomo, misurabile, consultabile. Con un obiettivo, che è anche una speranza: registriamo tutto per poterne prevedere i possibili accidenti di percorso. Il sonno, il ciclo, la veglia, il cuore, gli zuccheri, il respiro. Oggi siamo connessi e domani saremo agganciati ai sistemi sanitari pubblici e privati. E infine, magari, lasciati soli davanti a una checklist personale, per esprimere le ultime nostre preferenze prima che un algoritmo delle raccomandazioni anticipi anche le nostre estreme volontà.