Mai piu soli
Quali effetti sta producendo sul nostro cervello l’isolamento sociale a cui siamo costretti? Alcuni studi recenti hanno cercato di misurarli in laboratorio.
Grazie alle loro prime scoperte arriveremo a capire se le relazioni virtuali che intratteniamo su Zoom e i social network valgono quanto quelle dal vivo
AAbbiamo svariate forme di resistenza: possiamo sopravvivere per alcuni minuti senz’aria, alcuni giorni senza dormire o senza bere, e c’è chi resiste settimane senza cibo. Ma quanto a lungo possiamo sopportare di stare soli? È inevitabile chiederselo, da quando le restrizioni per far fronte alla pandemia sono entrate di prepotenza nelle nostre vite, e questa nuova grammatica del distanziamento sociale ha intriso il nostro quotidiano di mancanza, privazione e, per molti, di solitudine.
Non è semplice, però, rispondere alla domanda. Non basta interrogarci, uno a uno, su come stiamo. Misurare scientificamente la nostra resistenza alla solitudine significa dispiegare sistemi accurati, che possano descrivere con numeri, dati e immagini il nostro funzionamento, e in condizioni controllate. Per andare al cuore del problema sono necessari occhi che si spingano fino all’interno del nostro cervello, dove indagare se e come la sua capacità di cavarsela ne esce alterata. È una strada, quella dello studio sistematico, sulla quale stiamo muovendo i primi passi, per quanto da oltre un anno ci sembri di trovarci sul set del più grande esperimento sull’isolamento della storia umana.
Questo non significa che gli effetti della solitudine e dell’isolamento sull’essere umano non siano stati indagati in lungo e in largo prima di oggi. Nella grande maggioranza dei casi si è trattato di studi che cercano di capire se chi riferisce di provare un forte senso di solitudine – quella che la comunità scientifica internazionale chiama con il termine inglese loneliness – ha anche una risposta del corpo. Sono emerse prove consistenti di un legame tra l’isolamento sociale, il senso di solitudine e quadri clinici che riportano condizioni cardiocircolatorie peggiori e danni alla salute mentale, con storie soprattutto di depressione. Ma correlation is not causation ( la correlazione non implica la causalità), recita uno dei mantra della scienza. E pur essendo chiaro il nesso tra i fenomeni, con questo metodo non è possibile stabilire quale sia la logica che li lega: quale, insomma, sia la causa e quale la conseguenza. E se molti tendessero a isolarsi proprio perché esistono delle condizioni pregresse? Oltre al fatto che non sempre essere oggettivamente soli e sentirsi soli vanno di pari passo: possiamo sentirci appagati nonostante un periodo senza molti contatti sociali e, allo stesso tempo, anche in una stanza piena di gente accade di dover fare i conti con un profondo senso di solitudine.
Come vederci più chiaro: basta stringere il focus sull’isolamento forzato, attingendo dall’esperienza di chi – a causa, per esempio, di un particolare mestiere – si ritrova allontanato dalla famiglia e dalla sfera sociale. Come nel caso di Michel Siffre, speleologo francese che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si è avventurato più volte nelle profondità delle grotte, come l’abisso Scarason nelle Alpi liguri e la Midnight Cave in Texas, solo e al buio, per uscirne dopo oltre sei mesi (205 giorni, per la precisione) nel suo test di resistenza più duraturo. Continuamente monitorato attraverso sensori che tenevano sotto controllo i parametri vitali, come il ritmo cardiaco e la pressione, il corpo di Siffre ha permesso di raccogliere informazioni sulla resistenza dell’essere umano alla deprivazione sociale (e sensoriale) estrema, che si sono rivelate essenziali – e dotate di un tempismo perfetto – per il design delle prime missioni spaziali.
Ma quanto alle implicazioni di questo isolamento sul cervello, l’attenzione dell’epoca era tutta focalizzata sulla comprensione dei ritmi circadiani e del senso innato del tempo, e ciò che l’esperimento ha restituito è stato di fatto un primo scorcio degli effetti dell’isolamento estremo: progressiva confusione mentale, problemi di memoria, stati di ansia e depressione. Reazioni che hanno trovato riscontri, attraverso studi di tipo cognitivo, nelle esperienze degli equipaggi delle missioni di lunga permanenza nello spazio, nei ricercatori che rimangono a lungo nelle remote stazioni antartiche o, ancora, nelle persone costrette alla vita in carcere. Difficile, però, estendere i risultati alla popolazione generale, considerato che in tutti questi contesti l’isolamento sociale rappresenta solo una delle molteplici sfide con le quali i protagonisti devono fare i conti.
Quali sono le strutture cerebrali coinvolte? Alcuni suggerimenti vengono da studi condotti sugli animali sociali, soprattutto i topi, dove prolungati periodi di isolamento hanno mostrato un effetto distruttivo sulla funzionalità della corteccia prefrontale (un’area del cervello associata alle decisioni e al comportamento sociale), dell’ippocampo (che è legato alle capacità di apprendimento e alla memoria) e
un coinvolgimento del mesencefalo (che ha un ruolo chiave nei processi di ricompensa e piacere). Conseguenze tanto più marcate se l’isolamento avviene durante lo sviluppo, cioè nei cuccioli, con il persistere di deficit anche in età adulta. Tuttavia, la somiglianza tra la solitudine dei modelli animali e quella umana è oggetto di dibattito e non è ancora possibile – almeno per il momento – capire se un topo o un esemplare di un’altra specie si sentano effettivamente soli quando sono isolati. La domanda da porsi recita: lo stesso tipo di isolamento ricreato da questi esperimenti evocherebbe una risposta analoga nel nostro cervello di esseri umani? Quest’ultima è anche la questione attorno alla quale orbitano le più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze, tra cui quella di un team di scienziati al lavoro presso il Massachusetts Institute of Technology (il celebre Mit di Boston) e il Salk Institute for Biological Studies (La Jolla, California) che ha ricreato per la prima volta sull’essere umano condizioni di isolamento forzato in laboratorio. Lo scopo: indurre sperimentalmente un certo tipo di stress sociale e provare a controllarlo o perlomeno osservarne da vicino l’impatto sul cervello.
I risultati in forma definitiva sono stati pubblicati su Nature Neuroscience lo scorso novembre, ma gli esperimenti e la raccolta dei dati erano già in corso negli anni precedenti allo scoppio della pandemia, tra il 2018 e il 2019: il terreno di indagine non è stato il lockdown, bensì una situazione creata artificialmente e curata in ogni dettaglio. Importantissimo, per intenderci, è stato stabilire lo scenario giusto, così che la situazione contribuisse a un certo spaesamento: stanze chiuse, prive di finestre, e niente smartphone. In questo contesto, 40 volontari opportunamente selezionati (persone sane, senza patologie pregresse né problemi di integrazione sociale) hanno permesso che venisse monitorata la loro attività cerebrale in seguito a periodi di solitudine intensa, al termine di intere giornate trascorse in una di queste stanze e senza alcun contatto con il mondo esterno.
Dopo appena dieci ore, i partecipanti dichiaravano già di sentirsi soli e, grazie a tecniche di neuroimaging non invasive, capaci di mappare il metabolismo cerebrale e di restituire le risposte neurali agli stimoli sullo schermo di un computer, è stato possibile fotografare – letteralmente – come affiorava nel loro cervello il desiderio di socialità generato dalla sua privazione. Soprattutto grazie alla risonanza magnetica funzionale, uno scanner che permette di dedurre l’attività elettrica dei neuroni associata a precise azioni in tempo reale: i candidati vi si sono sottoposti subito dopo le “sessioni” di solitudine, venendo alternativamente stimolati dalla visione di immagini neutre (foto di fiori, per esempio) o raffiguranti scene di socialità. Queste ultime, dove le persone ritratte si abbracciavano, ridevano e dimostravano complicità, si sono rivelate un interruttore per una piccola regione interna del cervello, la substantia nigra, che appartiene al mesencefalo e molto probabilmente condivide la sua origine evolutiva con un’area già saltata all’occhio durante gli studi di isolamento condotti sui topi. L’intensità dell’attivazione di quest’area dinanzi alle immagini era coerente con il livello di solitudine riferito da ciascun soggetto, cioè più elevata in chi manifestava un maggior desiderio di interazione sociale, e correlata anche all’esperienza di vita antecedente ai test: il cervello di chi si era presentato con alle spalle una vita sociale più ricca si è dimostrato, insomma, più reattivo rispetto agli altri nell’arco di poche ore. Ma non è tutto.
Gli stessi candidati sono stati poi messi alla prova con un ulteriore tipo di privazione: quella del cibo. Dopo sessioni di digiuno prolungato, venendo stimolati dalla visione di fotografie di piatti di pasta, frutta e simili, il segnale generato nella substantia nigra dalla mancanza di cibo ricalcava di fatto quello che era stato associato al desiderio di socialità e, anche in questo caso, la sua intensità era proporzionale alla fame che le persone riferivano di avere. Non solo i risultati hanno dato corpo all’ipotesi che l’isolamento acuto inneschi il desiderio di contatto sociale, finendo per dimostrare quanto il nostro cervello sia sensi
bile all’esperienza della solitudine, ma hanno anche messo nero su bianco l’esistenza di circuiti comuni a quelli che, in seguito al digiuno, provocano la fame e ci spingono a nutrirci. Segno, forse, che l’interazione con gli altri è per noi un bisogno di vitale importanza, al pari del cibo.
«Seguendo queste orme, oggi stiamo provando a identificare più a fondo i diversi gradi di vulnerabilità delle persone, per esempio in riferimento all’età », spiega Giorgia Silani, neuroscienziata all’università di Vienna che oggi collabora con Livia Tomova – prima autrice dello studio sopra citato – a nuovi esperimenti sull’isolamento sociale indotto. « In questi mesi abbiamo ricreato le condizioni sperimentali in modo ancora più controllato», continua Silani, «e indaghiamo, oltre che la risonanza magnetica, anche sui livelli di cortisolo, un ormone che è un segnale di stress per l’organismo. In più, abbiamo introdotto un ulteriore filtro con cui guardare al sistema: quello del tempo». Si intende, infatti, seguire in modo più approfondito la dinamica temporale degli effetti sia della deprivazione sociale sia del digiuno, per stabilire se procedano di pari passo o se uno sia accelerato rispetto all’altro. Ripetendo gli esami anche il giorno seguente all’isolamento, sarà forse possibile comprendere se e quanto questi effetti si facciano sentire in modo prolungato sul nostro organismo.
Questa nuova chiave di lettura degli effetti cerebrali dell’isolamento offre inoltre agli scienziati uno strumento per provare a comprendere se il contatto virtuale, dalla frequentazione assidua dei social network alle chiamate via Zoom, possa soddisfare – e quanto – la nostra fame di rapporti interpersonali in condizioni come quelle che abbiamo vissuto durante il lockdown, una questione molto dibattuta ma ancora poco esplorata. Le opportunità digitali di connessione sono comparabili al contatto dal vivo? Se così fosse, il problema del digital divide assumerebbe una nuova rilevanza. «Si aprono prospettive inesplorate anche sulla correlazione tra l’isolamento e le dipendenze, e si potrebbero chiarire le basi neurali dell’abuso di cibo, alcol, sigarette o altre sostanze potenzialmente additive, che sembrano aver trovato una condizione fertile all’interno dello scenario determinato dalla pandemia », prosegue Silani. «Comprendere in che modo il cervello elabora il malessere dell’isolamento potrebbe rivelarsi uno strumento utile per una valutazione più capillare dei rischi e per ripensare le strategie d’intervento anche su questo fronte». La strada è tutt’altro che lineare, però ridefinire sin dalle radici il nostro bisogno innato di connessione sociale, provando a immaginarlo come un sistema omeostatico che reagisce all’isolamento e si fa sentire (anche se per ora in una forma che solo il sofisticato occhio degli strumenti della scienza può captare), è già un appiglio. Ancor più se lo immaginiamo come un denominatore comune, che ci lega come specie, e che persino in questi tempi difficili è lì a dirci che la nostra solitudine non è esclusivamente nostra.
Alice Pace
Giornalista, scrive di scienza, medicina e innovazione per diverse testate cartacee e online. Ha una laurea in Chimica e tecnologie farmaceutiche, un dottorato di ricerca nel campo delle nanotecnologie e un master in Giornalismo scientifico conseguito alla Sissa di Trieste. Nel 2016 ha pubblicato con Codice Edizioni il libro Hot. La scienza sotto le lenzuola.