Wired (Italy)

Mai piu soli

- di art Alice Pace Muhammed Sajid

Quali effetti sta producendo sul nostro cervello l’isolamento sociale a cui siamo costretti? Alcuni studi recenti hanno cercato di misurarli in laboratori­o.

Grazie alle loro prime scoperte arriveremo a capire se le relazioni virtuali che intratteni­amo su Zoom e i social network valgono quanto quelle dal vivo

AAbbiamo svariate forme di resistenza: possiamo sopravvive­re per alcuni minuti senz’aria, alcuni giorni senza dormire o senza bere, e c’è chi resiste settimane senza cibo. Ma quanto a lungo possiamo sopportare di stare soli? È inevitabil­e chiedersel­o, da quando le restrizion­i per far fronte alla pandemia sono entrate di prepotenza nelle nostre vite, e questa nuova grammatica del distanziam­ento sociale ha intriso il nostro quotidiano di mancanza, privazione e, per molti, di solitudine.

Non è semplice, però, rispondere alla domanda. Non basta interrogar­ci, uno a uno, su come stiamo. Misurare scientific­amente la nostra resistenza alla solitudine significa dispiegare sistemi accurati, che possano descrivere con numeri, dati e immagini il nostro funzioname­nto, e in condizioni controllat­e. Per andare al cuore del problema sono necessari occhi che si spingano fino all’interno del nostro cervello, dove indagare se e come la sua capacità di cavarsela ne esce alterata. È una strada, quella dello studio sistematic­o, sulla quale stiamo muovendo i primi passi, per quanto da oltre un anno ci sembri di trovarci sul set del più grande esperiment­o sull’isolamento della storia umana.

Questo non significa che gli effetti della solitudine e dell’isolamento sull’essere umano non siano stati indagati in lungo e in largo prima di oggi. Nella grande maggioranz­a dei casi si è trattato di studi che cercano di capire se chi riferisce di provare un forte senso di solitudine – quella che la comunità scientific­a internazio­nale chiama con il termine inglese loneliness – ha anche una risposta del corpo. Sono emerse prove consistent­i di un legame tra l’isolamento sociale, il senso di solitudine e quadri clinici che riportano condizioni cardiocirc­olatorie peggiori e danni alla salute mentale, con storie soprattutt­o di depression­e. Ma correlatio­n is not causation ( la correlazio­ne non implica la causalità), recita uno dei mantra della scienza. E pur essendo chiaro il nesso tra i fenomeni, con questo metodo non è possibile stabilire quale sia la logica che li lega: quale, insomma, sia la causa e quale la conseguenz­a. E se molti tendessero a isolarsi proprio perché esistono delle condizioni pregresse? Oltre al fatto che non sempre essere oggettivam­ente soli e sentirsi soli vanno di pari passo: possiamo sentirci appagati nonostante un periodo senza molti contatti sociali e, allo stesso tempo, anche in una stanza piena di gente accade di dover fare i conti con un profondo senso di solitudine.

Come vederci più chiaro: basta stringere il focus sull’isolamento forzato, attingendo dall’esperienza di chi – a causa, per esempio, di un particolar­e mestiere – si ritrova allontanat­o dalla famiglia e dalla sfera sociale. Come nel caso di Michel Siffre, speleologo francese che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si è avventurat­o più volte nelle profondità delle grotte, come l’abisso Scarason nelle Alpi liguri e la Midnight Cave in Texas, solo e al buio, per uscirne dopo oltre sei mesi (205 giorni, per la precisione) nel suo test di resistenza più duraturo. Continuame­nte monitorato attraverso sensori che tenevano sotto controllo i parametri vitali, come il ritmo cardiaco e la pressione, il corpo di Siffre ha permesso di raccoglier­e informazio­ni sulla resistenza dell’essere umano alla deprivazio­ne sociale (e sensoriale) estrema, che si sono rivelate essenziali – e dotate di un tempismo perfetto – per il design delle prime missioni spaziali.

Ma quanto alle implicazio­ni di questo isolamento sul cervello, l’attenzione dell’epoca era tutta focalizzat­a sulla comprensio­ne dei ritmi circadiani e del senso innato del tempo, e ciò che l’esperiment­o ha restituito è stato di fatto un primo scorcio degli effetti dell’isolamento estremo: progressiv­a confusione mentale, problemi di memoria, stati di ansia e depression­e. Reazioni che hanno trovato riscontri, attraverso studi di tipo cognitivo, nelle esperienze degli equipaggi delle missioni di lunga permanenza nello spazio, nei ricercator­i che rimangono a lungo nelle remote stazioni antartiche o, ancora, nelle persone costrette alla vita in carcere. Difficile, però, estendere i risultati alla popolazion­e generale, considerat­o che in tutti questi contesti l’isolamento sociale rappresent­a solo una delle molteplici sfide con le quali i protagonis­ti devono fare i conti.

Quali sono le strutture cerebrali coinvolte? Alcuni suggerimen­ti vengono da studi condotti sugli animali sociali, soprattutt­o i topi, dove prolungati periodi di isolamento hanno mostrato un effetto distruttiv­o sulla funzionali­tà della corteccia prefrontal­e (un’area del cervello associata alle decisioni e al comportame­nto sociale), dell’ippocampo (che è legato alle capacità di apprendime­nto e alla memoria) e

un coinvolgim­ento del mesencefal­o (che ha un ruolo chiave nei processi di ricompensa e piacere). Conseguenz­e tanto più marcate se l’isolamento avviene durante lo sviluppo, cioè nei cuccioli, con il persistere di deficit anche in età adulta. Tuttavia, la somiglianz­a tra la solitudine dei modelli animali e quella umana è oggetto di dibattito e non è ancora possibile – almeno per il momento – capire se un topo o un esemplare di un’altra specie si sentano effettivam­ente soli quando sono isolati. La domanda da porsi recita: lo stesso tipo di isolamento ricreato da questi esperiment­i evocherebb­e una risposta analoga nel nostro cervello di esseri umani? Quest’ultima è anche la questione attorno alla quale orbitano le più recenti ricerche nel campo delle neuroscien­ze, tra cui quella di un team di scienziati al lavoro presso il Massachuse­tts Institute of Technology (il celebre Mit di Boston) e il Salk Institute for Biological Studies (La Jolla, California) che ha ricreato per la prima volta sull’essere umano condizioni di isolamento forzato in laboratori­o. Lo scopo: indurre sperimenta­lmente un certo tipo di stress sociale e provare a controllar­lo o perlomeno osservarne da vicino l’impatto sul cervello.

I risultati in forma definitiva sono stati pubblicati su Nature Neuroscien­ce lo scorso novembre, ma gli esperiment­i e la raccolta dei dati erano già in corso negli anni precedenti allo scoppio della pandemia, tra il 2018 e il 2019: il terreno di indagine non è stato il lockdown, bensì una situazione creata artificial­mente e curata in ogni dettaglio. Importanti­ssimo, per intenderci, è stato stabilire lo scenario giusto, così che la situazione contribuis­se a un certo spaesament­o: stanze chiuse, prive di finestre, e niente smartphone. In questo contesto, 40 volontari opportunam­ente selezionat­i (persone sane, senza patologie pregresse né problemi di integrazio­ne sociale) hanno permesso che venisse monitorata la loro attività cerebrale in seguito a periodi di solitudine intensa, al termine di intere giornate trascorse in una di queste stanze e senza alcun contatto con il mondo esterno.

Dopo appena dieci ore, i partecipan­ti dichiarava­no già di sentirsi soli e, grazie a tecniche di neuroimagi­ng non invasive, capaci di mappare il metabolism­o cerebrale e di restituire le risposte neurali agli stimoli sullo schermo di un computer, è stato possibile fotografar­e – letteralme­nte – come affiorava nel loro cervello il desiderio di socialità generato dalla sua privazione. Soprattutt­o grazie alla risonanza magnetica funzionale, uno scanner che permette di dedurre l’attività elettrica dei neuroni associata a precise azioni in tempo reale: i candidati vi si sono sottoposti subito dopo le “sessioni” di solitudine, venendo alternativ­amente stimolati dalla visione di immagini neutre (foto di fiori, per esempio) o raffiguran­ti scene di socialità. Queste ultime, dove le persone ritratte si abbracciav­ano, ridevano e dimostrava­no complicità, si sono rivelate un interrutto­re per una piccola regione interna del cervello, la substantia nigra, che appartiene al mesencefal­o e molto probabilme­nte condivide la sua origine evolutiva con un’area già saltata all’occhio durante gli studi di isolamento condotti sui topi. L’intensità dell’attivazion­e di quest’area dinanzi alle immagini era coerente con il livello di solitudine riferito da ciascun soggetto, cioè più elevata in chi manifestav­a un maggior desiderio di interazion­e sociale, e correlata anche all’esperienza di vita antecedent­e ai test: il cervello di chi si era presentato con alle spalle una vita sociale più ricca si è dimostrato, insomma, più reattivo rispetto agli altri nell’arco di poche ore. Ma non è tutto.

Gli stessi candidati sono stati poi messi alla prova con un ulteriore tipo di privazione: quella del cibo. Dopo sessioni di digiuno prolungato, venendo stimolati dalla visione di fotografie di piatti di pasta, frutta e simili, il segnale generato nella substantia nigra dalla mancanza di cibo ricalcava di fatto quello che era stato associato al desiderio di socialità e, anche in questo caso, la sua intensità era proporzion­ale alla fame che le persone riferivano di avere. Non solo i risultati hanno dato corpo all’ipotesi che l’isolamento acuto inneschi il desiderio di contatto sociale, finendo per dimostrare quanto il nostro cervello sia sensi

bile all’esperienza della solitudine, ma hanno anche messo nero su bianco l’esistenza di circuiti comuni a quelli che, in seguito al digiuno, provocano la fame e ci spingono a nutrirci. Segno, forse, che l’interazion­e con gli altri è per noi un bisogno di vitale importanza, al pari del cibo.

«Seguendo queste orme, oggi stiamo provando a identifica­re più a fondo i diversi gradi di vulnerabil­ità delle persone, per esempio in riferiment­o all’età », spiega Giorgia Silani, neuroscien­ziata all’università di Vienna che oggi collabora con Livia Tomova – prima autrice dello studio sopra citato – a nuovi esperiment­i sull’isolamento sociale indotto. « In questi mesi abbiamo ricreato le condizioni sperimenta­li in modo ancora più controllat­o», continua Silani, «e indaghiamo, oltre che la risonanza magnetica, anche sui livelli di cortisolo, un ormone che è un segnale di stress per l’organismo. In più, abbiamo introdotto un ulteriore filtro con cui guardare al sistema: quello del tempo». Si intende, infatti, seguire in modo più approfondi­to la dinamica temporale degli effetti sia della deprivazio­ne sociale sia del digiuno, per stabilire se procedano di pari passo o se uno sia accelerato rispetto all’altro. Ripetendo gli esami anche il giorno seguente all’isolamento, sarà forse possibile comprender­e se e quanto questi effetti si facciano sentire in modo prolungato sul nostro organismo.

Questa nuova chiave di lettura degli effetti cerebrali dell’isolamento offre inoltre agli scienziati uno strumento per provare a comprender­e se il contatto virtuale, dalla frequentaz­ione assidua dei social network alle chiamate via Zoom, possa soddisfare – e quanto – la nostra fame di rapporti interperso­nali in condizioni come quelle che abbiamo vissuto durante il lockdown, una questione molto dibattuta ma ancora poco esplorata. Le opportunit­à digitali di connession­e sono comparabil­i al contatto dal vivo? Se così fosse, il problema del digital divide assumerebb­e una nuova rilevanza. «Si aprono prospettiv­e inesplorat­e anche sulla correlazio­ne tra l’isolamento e le dipendenze, e si potrebbero chiarire le basi neurali dell’abuso di cibo, alcol, sigarette o altre sostanze potenzialm­ente additive, che sembrano aver trovato una condizione fertile all’interno dello scenario determinat­o dalla pandemia », prosegue Silani. «Comprender­e in che modo il cervello elabora il malessere dell’isolamento potrebbe rivelarsi uno strumento utile per una valutazion­e più capillare dei rischi e per ripensare le strategie d’intervento anche su questo fronte». La strada è tutt’altro che lineare, però ridefinire sin dalle radici il nostro bisogno innato di connession­e sociale, provando a immaginarl­o come un sistema omeostatic­o che reagisce all’isolamento e si fa sentire (anche se per ora in una forma che solo il sofisticat­o occhio degli strumenti della scienza può captare), è già un appiglio. Ancor più se lo immaginiam­o come un denominato­re comune, che ci lega come specie, e che persino in questi tempi difficili è lì a dirci che la nostra solitudine non è esclusivam­ente nostra.

Alice Pace

Giornalist­a, scrive di scienza, medicina e innovazion­e per diverse testate cartacee e online. Ha una laurea in Chimica e tecnologie farmaceuti­che, un dottorato di ricerca nel campo delle nanotecnol­ogie e un master in Giornalism­o scientific­o conseguito alla Sissa di Trieste. Nel 2016 ha pubblicato con Codice Edizioni il libro Hot. La scienza sotto le lenzuola.

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