Wired (Italy)

UN INGUARIBIL­E IPOCONDRIA­CO

- di Diego De Silva art Boris Pelcer

Quella delle malattie è la paura all’ennesima potenza. Ma è anche una fede. A cui non si riesce ad abdicare nemmeno dopo una tac total body. Uno dei più acclamati maestri dell’ironia ci consegna il referto di un’ossessione, nella forma di racconto inedito in esclusiva per Wired

La stanza è investita da una luce giallo epatite. Il giallo epatite ha questo dica rattent eristico: perde d’ intensità in manierate nt eristico: perde d’ intensità in maniera tendenzial­mente infifinita infinita ma non si spegne mai del tutto, costringe l’occhio ad adeguarsi, lo corrompe. È solo quando torni all’aperto che recuperi in pieno la vista, come riacquista­re la padronanza di un arto, quando di notte ti svegli di soprassalt­o con un braccio inanimato per una posizione sbagliata che ha interrotto la circolazio­ne troppo a lungo, e allora lo agiti, sollevando­lo con la mano viva come fosse un peso, una protesi, fifinché finché il sangue lo invade e lo risveglia, disattivan­do il sistema d’allarme del cuore, e così ti riaddormen­ti, o forse svieni e dimentichi, sì che al risveglio non sai se associare l’accaduto al sogno o alla realtà (la notte non sai mai cosa nasconde).

Mi è capitato, nella vita, di entrare in un obitorio, e la luce di questa stanza mi fa esattament­e lo stesso effetto. Mi domando come faccia a non accorgerse­ne, questo qua. Come possa venire a lavorare tutti i giorni in un posto giallo epatite dove ogni cosa è sciatta e associata a un’altra senza criterio, e pure l’alone della pioggia sui vetri sa di vecchio. Ma certo non posso dirgli le cose che penso. Non posso dirgli che questo è l’ultimo posto in cui vorrei trovarmi, specialmen­te in un periodo come questo, che ci autorizza a chiuderci in casa e non incontrare nessuno. Per tanti, quasi tutti, è una disgrazia; per quelli come me, addirittur­a un sollievo.

Mi nascondo dietro la mascherina, faccio attenzione a evitare che si colgano le espression­i della bocca, e lui mi scruta gli occhi, come stesse cercando qualcosa di preciso. Cosa vuoi da me? Non ti dirò neanche la metà di quello che vuoi sapere.

Come mi avesse sentito, si rivolge a mia moglie.

«Quello che vorrei sapere, signora, è cosa esattament­e rimprovera a suo marito». « Forse la pretesa d’essere trattato come se avesse una malattia conclamata ».

Io non solo non rispondo, ma neanche la guardo in faccia. Ho sentito troppe volte questo rimprovero per darle soddisfazi­one.

« Dunque suo marito sarebbe un malato immaginari­o».

«Sì, possiamo dire anche così », dice mia moglie sospirando, insoddisfa­tta della sua stessa risposta.

«Si riconosce in questa definizion­e?», mi chiede il nostro (diciamo così) interprete. E per un attimo lo guardo come a chiedergli a che titolo mi fa una domanda del genere, alla quale potrei tranquilla­mente non rispondere.

« No», dico, « ma anche se fosse? Cosa c’è di strano in un male immaginari­o? Anche un attacco di panico è frutto d’immaginazi­one, ma questo non impedisce al panico di provocare effetti gravissimi in chi ne soffre».

Lui è così d’accordo con me che addirittur­a annuisce. Il dettaglio fa incazzare tremendame­nte mia moglie, che infatti interviene, sbottando.

« Non cercare di nobilitare il tuo cosiddetto male immaginari­o. La verità è che ti senti al centro del mondo. Ti credi così irresistib­ile, così intelligen­te, così consapevol­e, così essenziale, da pensare che tutte le malattie del pianeta stiano complottan­do per eliminarti. È così, dottore. Mio marito crede che le malattie siano kamikaze pronti a schiantars­i contro di lui pur di sopprimerl­o. Non si può coltivare una simile convinzion­e senza essere dei presuntuos­i e degli egoisti».

«Sai qual è il tuo problema, Teresa?», le dico senza alterarmi, quasi a bassa voce. « Prendi la patologia come una faccenda personale. Manchi di scientific­ità ».

« E perché non dovrei farne una questione personale? Viviamo insieme, siamo marito e moglie, tu mi condizioni l’esistenza con l’ipocondria ».

«Questo non posso certo negarlo», replico. «Qualsiasi malattia condiziona l’esistenza di chi vive con un malato. Anche un bambino con la varicella condiziona la vita dei genitori; anche quella è una questione personale, giusto? Perché un ipocondria­co non dovrebbe condiziona­re la vita di sua moglie quanto gliela condizione­rebbe un figlio con la varicella?».

Teresa va in stallo per un paio di secondi. Quando riprende la parola, si controlla a stento. « Dottore, per favore, gli dica lei qualcosa o rischio di dargli un cazzotto in bocca ». « Ahiahi », faccio, agitando l’indice nell’aria come un bravo maestrino. «Questo è il posto più sbagliato per fare certe affermazio­ni ».

«Si calmi, signora», dice il nostro (chiamiamol­o ancora così) interprete. «Non cada in queste provocazio­ni. E lei», si rivolge a me, adesso, «per favore, la smetta di essere così concessivo.

Il suo autocontro­llo è ammirevole, in un certo senso, ma sa benissimo che queste risposte laconiche e, mi permetta, un po’ supponenti, snervano sua moglie».

« Non lo faccio apposta », dico, mentendo.

Lui, che non è scemo, non mi crede.

« Posso farle una domanda?», dice.

« Prego».

«Come si concilia il self-control che sta mostrando con l’ipocondria? Una persona incline a convincers­i di potersi ammalare facilmente non dovrebbe essere così zen ».

« Bella domanda », rispondo.

« Non è una risposta », dice.

« Infatti », conferma Teresa.

«Una domanda è bella quando sollecita una risposta incompleta, insufficie­nte per forza di cose», argomento.

« Ancora una risposta zen », fa lui.

«Che palle», dice Teresa.

«Era solo per dire che non posso dare una risposta soddisface­nte. Non sono un ipocondria­co irrequieto, non divento un tarantolat­o quando vado in ansia. Magari c’è chi sbrocca, io no. Io resto calmo, non strepito, non urlo, non mi agito. Ma se mi gira la testa vado in ospedale».

«Come se correre in ospedale per un capogiro fosse meno grave che rompere un piatto o una sedia », osserva Teresa. « Ma lo sa che una volta siamo dovuti scappare al pronto soccorso da una pista di sci perché mio marito si era convinto di avere un infarto in corso? Ovviamente stava benissimo, ci siamo solo rovinati la giornata, abbiamo litigato come cani da combattime­nto e siamo rientrati a casa prima della fine del weekend ».

A questo punto vorrei tanto alzarmi in piedi e dire che ne ho abbastanza di questo dibattito demenziale e dell’aria da competente che usa questo signore che sta lì ad arbitrare senza sapere di cosa parla, ma mi controllo.

Quello che è difficile da spiegare agli ignoranti dell’ipocondria è che il mio disturbo non contempla il falso allarme. Non è che quando ti dicono che stai bene ti passa. Questa è la differenza essenziale dai non affetti da questa curiosa fede. Perché di fede si tratta. Cos’altro è una fede se non il convincers­i di una cosa indimostra­bile? Io non smetto certo di aver paura di ammalarmi perché un elettrocar­diogramma mi ha detto che il mio cuore funziona regolarmen­te. Come se poi le statistich­e non fossero piene di gente stramazzat­a d’infarto appena uscita dal reparto cardiologi­co dell’ospedale con un referto di perfetta salute. La mia paura ha un fondamento, poggia su dati concreti. Non ho paura del buio o dei fantasmi. Non credo nel demonio. Credo nella malattia e nella sua subdola capacità di aggredirmi alle spalle, o d’intrufolar­si nel mio corpo giocando sulla mia distrazion­e per crescere, figliare e divorarmi dal di dentro. Non le farò mai questo favore. Per questo mi rilasso quando mi stendo in una Tac, possibilme­nte total body.

Ma non posso dire tutto questo. Sempliceme­nte non posso. La verità è che non si può essere sinceri; e non per malafede. Le cose importanti sono indicibili. Teresa sta giustament­e protestand­o, rivendica un diritto, ha ragione. Ma questo non cambia le cose. Non si può razionaliz­zare ciò che razionale non è. Come se uno volesse capire l’amore, o la poesia. Ridicolo. « Posso farti io una domanda?», chiedo a mia moglie.

Il bello è che lei guarda lui, come se gli chiedesse il permesso di risponderm­i. E lui, tutto compreso nella parte, fa anche sì con la testa.

« Eh ».

« Durante il lockdown mi è sembrato che siamo stati bene. Mi sbaglio?».

« No, non sbagli », fa lei ammorbiden­dosi. « Non solo non abbiamo litigato, ma ci siamo anche divertiti a sfottere i vicini che alle sei di pomeriggio uscivano sui balconi a cantare Toto Cutugno».

« Anche Mino Reitano», aggiungo.

«Quello era uno stereo», mi corregge lei ridendo, e poi canticchia, « Italia, Italia / di terra bella uguale non ce n’è ».

« Poi mi prende l’emozione / per Firenze che sta là / Per Venezia che si muove / e l’antica Roma è qua », continuo, sorprenden­domi di me stesso nel ricordare le parole.

« Il risveglio del patriota del tardo pomeriggio», si aggiunge il nostro interprete.

« Il fatto che siamo stati bene nel lockdown dimostra quanto sia impossibil­e avere una vita normale con te», sentenzia Teresa tornando seria.

« E se la normalità fosse quella, invece?», replico.

« No, non lo è», fa lei, intristend­osi. « Io non voglio vivere in galera ».

Nonostante me l’aspettassi, questa battuta all’improvviso mi spegne. Non ho niente da replicare. Faccio scena muta, come quando a scuola ti coglievano impreparat­o in flagranza. E mentre penso che Teresa ha ragione, capisco che riconoscer­e la ragione di un altro vuol dire inquadrarl­o dall’altra parte di un confine vicinissim­o dove puoi scegliere se andare o no, se lui t’invita. Teresa mi ha invitato lì, avendo ragione. Mi ha detto: «Vieni ». E io, tacendo, rimango al mio posto.

È allora che lei depone le armi, e si alza in piedi; ed è quello il momento – lo realizzo perfettame­nte – in cui la perdo per sempre.

Il magistrato la guarda come a chiederle dove crede di andare, visto che non ci ha detto di uscire; e anzi, a questo punto possiamo procedere e concludere velocement­e.

Allora lei si rimette a sedere, smette di guardarmi e ricaccia in dentro le lacrime. Il giudice dichiara fallito il tentativo di conciliazi­one, e finalmente ci separa.

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