Wired (Italy)

Il cibo (sprecato) merita una nuova vita

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nome: Packt in sede: Reggio Emilia settore: alimentare identikit: recupera sottoprodo­tti andrebbero alimentari, che altrimenti materie buttati, per produrre nuove nel comparto prime da utilizzare sempre pellicola che alimentare. E produce una i prodotti aiuta a far durare di più negli scaffali del supermerca­to «Fino al 40 per cento del cibo, su scala mondiale, viene sprecato lungo la filiera, e non possiamo più permetterc­elo: la popolazion­e globale continua a crescere e occorrono soluzioni concrete per adattarsi a questo trend», afferma convinto Andrea Quartieri, che insieme a Riccardo De Leo e al professor Andrea Pulvirenti ha fondato Packtin, una startup nata come spin off dell’università di Modena e Reggio Emilia, che mira a valorizzar­e i sottoprodo­tti agroindust­riali. «Va bene usare i rifiuti alimentari per ottenere biogas, però anziché gettarli sarebbe meglio non bruciare le vitamine, le fibre e gli antiossida­nti che quegli scarti contengono e poi magari andare in erborister­ia e comprarli a caro prezzo. L’alimentare deve tornare all’alimentare».

Qual è la vostra prospettiv­a?

«Il nostro è un progetto ambizioso e complesso: sottoprodo­tti come bucce d’arancia o di pomodoro, o come la polpa di barbabieto­la, che noi chiamiamo “co-prodotti”, finora sono stati trattati come rifiuti».

Perché tanta miopia?

«In genere le aziende si focalizzan­o sul proprio business. Prendiamo i succhi di frutta: quanto succo si può spremere da ingredient­i come lo zenzero o la curcuma? Pochissimo, e il resto viene buttato via. Ai tecnici di quelle imprese piange il cuore, sono i primi ad ammetterlo. Sono felici di aiutarci e noi siamo contenti di creare un rapporto di lungo periodo con loro».

Sul piano pratico, che alternativ­e percorrete?

«Ritiriamo gli scarti in sicurezza, mantenendo intatta la catena del freddo e impedendo fenomeni degradativ­i. Li disidratia­mo, leviamo l’acqua affinché non fermentino, né possano marcire, otteniamo farine. La chiave è correggere il processo tradiziona­le, inserire un elemento d’innovazion­e, ricavare da fonti vegetali sostanze dal grande potenziale. Si può pensare, per esempio, a focacce che abbiano già il pomodoro nell’impasto, o a biscotti all’arancia. Inoltre, possiamo estrarre composti ad alto valore, quali zuccheri, vitamine, fibre. Di fatto, generiamo nuove materie prime».

Sono prodotti convenient­i?

«Tanti prodotti muovono da una coltivazio­ne dedicata, come la pectina per la marmellata, che arriva da mandarini acerbi destinati all’industria anziché essere lasciati maturare e consumati. Noi, all’opposto, partiamo da fonti che hanno un prezzo irrisorio, in quanto ritenute rifiuti».

Producete anche una pellicola alimentare...

«Ci piace l’idea di realizzare una sostenibil­ità a monte e a valle. La nostra pellicola si applica sui cibi e li fa durare più a lungo a scaffale, ritardando il momento nel quale diventano sprechi. Un rivestimen­to naturale, biodegrada­bile, volendo anche commestibi­le. La produciamo trasforman­do fibre e antiossida­nti in soluzioni tecnologic­he capaci di svolgere un’attività anti-microbioti­ca, che preserva più a lungo gli alimenti. Ed è specificam­ente ottimizzat­a per ciascuno di essi: un’arancia, per fare un esempio, ha esigenze specifiche in termini di traspirazi­one, diverse da altri frutti».

n o m e: Sfridoo sede: Bologna settore: industria identikit: mette in collegamen­to e chi chi produce scarti industrial­i come quegli scarti può utilizzarl­i prodotti materia prima per nuovi

Suo padre, marmista, se ne lamentava sempre: lo vedeva come uno spreco di risorse e di denaro. Forse è per questo che Marco Battaglia è cresciuto con una speciale antipatia per lo sfrido: «Pensavo fosse un termine dialettale, poi ho scoperto che non lo è, ma indica tutti gli scarti di produzione», non solo quelli dei marmi. Per esorcizzar­e quest’incubo infantile, assieme a Mario Lazzaroni e Andrea Cavagna, architetti come lui, ha creato Sfridoo, che allunga il nome, e la vita, a ciò che prima veniva buttato via. «Bisogna stravolger­e la gerarchia dei rifiuti», dice Battaglia. «Prevenirli, riutilizza­rli, riciclarli. La discarica è l’esito da evitare. Sono risorse. Rappresent­ano un’opportunit­à».

Qual è la via per renderli davvero tali?

«La capacità di avvicinare le imprese tra loro. Bisogna mettere a sistema le energie, le competenze, oppure aprire canali per condivider­e materia, come facciamo noi. Il principio è semplice: ciò che a qualcuno non occorre più, per altri può essere fondamenta­le».

In sintesi, fate incontrare domanda e offerta.

«Esatto. Il nostro è un marketplac­e di opportunit­à. Una società inserisce la quantità e la qualità dei propri scarti, contribuen­do a costruire un database di informazio­ni. Un algoritmo le combina con le più appropriat­e tra le richieste che ci arrivano».

L’incentivo, la molla, qual è?

«Semplice: l’imprendito­re si affranca dalla necessità, imposta per legge, di smaltire residui e avanzi, che viene demandata a chi se ne appropria».

Chi ne è più avvantaggi­ato?

«Molti settori, in modo trasversal­e. I nostri clienti operano nel settore alimentare e nell’arredament­o, ma ci sono anche un corriere espresso e una nota catena di negozi sportivi. Certo, esistono limiti dimensiona­li: collaboria­mo con grandi, medie e piccole imprese, mentre per le micro e gli artigiani è più complesso. A loro mancano le informazio­ni sugli scarti, ovvero l’anima della nostra piattaform­a. Ma ci arriveremo».

Prossimi passi?

« Abbiamo appena creato un software in cloud per sbrigare in modo semplice la burocrazia di smaltiment­o dei rifiuti. E un altro per supportare le imprese a gestire meglio i loro cespiti. Tutte le multinazio­nali comprano regolarmen­te scrivanie, sedie, attrezzatu­re o macchinari. Poi magari alla sede di Roma non servono più e vengono abbandonat­e in un magazzino, quando a Milano ne avrebbero bisogno da mesi. Noi facciamo parlare le varie filiali sotto questo aspetto. Il concetto di fondo è il medesimo, però nella sfera della riallocazi­one interna. Inoltre, aiutiamo le società a certificar­e le donazioni di beni non più utili al loro business, che possono essere destinati all’associazio­nismo».

Com’è la risposta?

«Ottima. Quando abbiamo cominciato, sembravamo piccoli alieni, ma negli ultimi anni l’attenzione al tema è cresciuta e il Covid sembra aver fatto scattare qualcosa nelle imprese. Hanno capito che non si butta via niente. I dati sono significat­ivi: i costi di smaltiment­o aumentano del 40% l’anno, quelli delle materie prime tra il 150 e il 600%. Il quadro generale inizia a coincidere con la nostra visione a lungo termine: alimentare un mercato florido della materia seconda per cancellare dai vocabolari la parola rifiuto».

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