GLI ALTRI DI CASA
Si avvicinano le elezioni comunali, momento tra i più preziosi per tornare a mettere a sul tavolo il nostro rapporto con il territorio e con la società, con le visioni e le risorse che dovrebbero permetterci di realizzarle. In una parola: con la politica, dimensione che come poche altre definisce la nostra più intima natura di esseri umani (non lo dico io, lo dicevano i Greci, gente che vedeva lontano). Poi che questo mare della politica a volte lo si solchi con il fiuto, la fermezza e l'incosciente ambizione di un Cristoforo Colombo, e a volte invece ci si limiti a un piccolo cabotaggio, da un porto sicuro a un altro, senza pensare troppo alle conseguenze di lungo periodo, fa parte delle regole del gioco. Senza voler offendere nessuno, anche a livello comunale la nostra mi pare più un'epoca di Zattere della Medusa (vedi il celebre quadro di Géricault) che non di grandi galeoni spagnoli. Ma sarà la Storia a giudicare i fatti, noi ci limitiamo a vivere o sopravvivere. C'è un tema però che mi sta a cuore più di altri, anche perché interseca l'ambito nel quale mi muovo professionalmente, quello della cultura. Dovessi azzardare una definizionelampo chiamerei «cultura» tutto quello che ha a che fare con l'incontro con il diverso, il sorprendente, l'inaspettato, l'ignoto: ciò che ancora non si conosce e che si vorrebbe invece poter conoscere meglio, a tutti i livelli. Di questi incontri è fatta la vita di tutti i giorni. L'importante è lasciare aperta la porta della mente e non permettere che sia la paura (sentimento legittimo) a tenere le redini della quotidianità. Mi piace pensare che Marco Borradori, nel suo costante ripeterci che a Lugano «sono rappresentate ben 140 nazionalità», intendesse suggerire qualcosa di simile. Detto da una persona che aderiva a un partito non proprio spalancato su orizzonti di accoglienza (uso un eufemismo) mi è sempre sembrata una frase molto forte, addirittura provocatoria. Dico subito che io a queste 140 nazionalità residenti in città darei senza indugi il diritto di voto comunale; partendo magari dagli italofoni con decenni di permesso C alle spalle, con figli cresciuti qui, scolarizzazione completa, luganesi fino al midollo. Ma via via anche a tutti gli altri, con poche regole chiare, semplici da applicare. Non sarebbe una prima in Svizzera, perché con sfumature diverse lo fanno già nei Cantoni di Neuchâtel, Giura, Vaud e Friburgo, mentre Appenzello Esterno, Grigioni e Basilea-Città applicano questo diritto in modo più sporadico (nell'ultimo caso solo sulla carta). Che la partecipazione, nei Comuni che lo permettono, rimanga molto bassa non è motivo sufficiente per rinunciare: non si inventa dalla mattina alla sera una cultura politica radicata come la nostra. Dare il voto comunale agli stranieri, con o senza la possibilità di essere eletti nei legislativi, equivarrebbe a riconoscere, senza tanti sofismi dietro i quali troppo spesso si nasconde un malcelato razzismo, che chi ha contribuito a costruire una società ha acquisito strada facendo il diritto di parola. La prima obiezione che si sente muovere, non per forza da destra, è «Perché allora non chiedono la nazionalità»? Chi ne ha il diritto, se vuole, la chieda, ma perché rendere obbligatorio questo passaggio, piuttosto forte dal punto di vista identitario – non tutte le nazioni concedono il doppio passaporto – per poter interagire con gli altri su questioni di natura pratica, in genere molto spicce (canalizzazioni, mense scolastiche, trasporti, cimiteri…), come quelle che muovono la politica comunale? I massimi sistemi, quelli che definiscono l'essenza stessa della svizzerità, continueranno a restare ancorati ai piani più alti della Costituzione, e nessuno li toccherà se non il popolo sovrano. Si può stare tranquilli su questo punto. Sul resto, anche facendo memoria di cosa è stata Lugano nel suo passato, si potrebbe provare ad aprire qualche finestra.