Papà condannato ma c'è una speranza
/ Pena sospesa per un trentanovenne che non ha rispettato l'ordine di stare a più di duecento metri dalla moglie (a cui ha rivolto frasi minacciose) e dalle due figlie Soffriva di sindrome bipolare affettiva – Ora si sta curando e vorrebbe poter fare il p
Da un processo, un cronista può uscire con stati d'animo molto diversi fra loro. Delusione, rabbia, compassione, disillusione, incredulità, speranza. Già, anche speranza. L'impressione è che il sentimento di chi era in aula ieri a Lugano fosse proprio quello, al termine del processo che si è concluso con la condanna di un trentanovenne italiano residente nel Luganese per coazione, violazione di domicilio e disobbedienza a decisioni dell'autorità. A una decisione in particolare: il divieto di avvicinarsi a meno di duecento metri dalla moglie, dalle due figlie e da quella che era stata la loro casa. Sullo sfondo, una storia di tensioni matrimoniali e anche una malattia, la sindrome affettiva bipolare, di cui ha sofferto l'uomo.
In questo contesto, nonostante il divieto citato in precedenza, il trentanovenne si è presentato per quattro volte al domicilio della compagna. La prima ha solamente suonato il citofono; la seconda è entrato nel giardino e si è seduto ad attendere il ritorno della donna e delle bambine; la terza le ha aspettate sul muretto del marciapiede di fronte a casa, dove era arrivato dopo aver suonato il campanello ai genitori di un'amica della figlia; la quarta si è prima piazzato davanti al garage approfittando del fatto che un vicino stava uscendo, e poi si è ripresentato sotto l'abitazione gridando frasi piuttosto minacciose alla moglie. A quel punto sono subito scattate le manette e l'uomo ha passato in carcere una settantina di giorni.
Riconosce le sue responsabilità, e nel frattempo ha imboccato un percorso terapeutico che gli ha permesso di migliorare le sue condizioni psichiche. «Quando ha commesso i fatti non stava bene – ha argomentato in aula il suo avvocato Massimo Quadri – mentre oggi il suo stato di salute è stabile e non vi è pericolo che possa ricadere in quegli errori». «C'è una certa sicurezza a livello medico» ha aggiunto il legale, chiedendo che fosse annullato il divieto di avvicinarsi alla compagna e alle figlie.
Il procuratore pubblico Zaccaria Akbas ha invece auspicato che questa misura venisse prorogata di due anni. «A parte il fatto che si tratta di una questione più di competenza della giustizia civile, non me la sento di permettere un riavvicinamento ora. Quello che è successo è grave. È una mia opinione, ma non vedo queste garanzie che ciò non possa ricapitare. Si potrebbe valutare di anno in anno...».
«La signora ora è sicura, ma non completamente serena – ha aggiunto l'avvocato della donna Marco Cimei – e gli elementi per una revoca del divieto sono troppo deboli».
«Io sto bene adesso – ha detto l'imputato – e non ho nulla contro di lei, ma se non viene annullato il divieto non posso fare il papà. Viviamo in case diverse: si tratterebbe solo di potermi fermare fuori per accompagnare le mie figlie a scuola».
Motivando la sentenza – la condanna a una pena di sette mesi di carcere sospesa a favore della terapia – il giudice Siro Quadri ha riconosciuto che l'uomo «ha capito di aver bisogno di un trattamento medico» e si è curato. «Ora, lentamente, si sta tutto mettendo a posto. E secondo i medici, se continuerà a seguire la terapia non ci saranno rischi di recidiva».
Sul divieto, il presidente della Corte ha optato per un compromesso. «Non credo sia giusto invadere il campo della giustizia civile, quindi la sentenza di oggi è “dinamica”: il divieto è prorogato per un anno, perché la tranquillità della vittima è un valore che va riconosciuto, ma l'Autorità regionale di protezione, se lo riterrà opportuno, avrà la facoltà di modificare questa decisione e interrompere la misura». Questo – e molto altro, pensando al futuro della famiglia – dipenderà dalla determinazione del padre a completare il suo percorso di cura. Ecco la speranza.
Per la conferma o meno del divieto di avvicinarsi sarà decisivo il parere delle Autorità di protezione