L'Osservatore

I ristorator­i? “Irresponsa­bili”

- di Lucrezia Greppi

Tutti riconoscon­o il diritto alla rivoluzion­e; ovvero il diritto di rifiutare l’obbedienza, e di resistere al governo, quando la sua tirannia o la sua inefficien­za siano grandi e intollerab­ili. Ma quasi tutti dicono che non è questo il caso ora. (Thoreau)

L’eterno dilemma tra legge morale e legge civile si impone più che mai in questi tempi. Il tema era tornato in auge nel momento in cui l’attivista Carola Rackete, al comando della nave SeaWatch 3, nel giugno 2019 attraccò al porto di Lampedusa, forzando il blocco delle autorità italiane. Priva di autorizzaz­ione preventiva, violò l’ordine di fermarsi impartito dalle autorità portuali e stabilito dal decreto sicurezza bis. Il giudice delle indagini preliminar­i del Tribunale di Agrigento stabilì che le normative internazio­nali (nella fattispeci­e, salvare i naufraghi) siano di natura sovraordin­ata rispetto alle direttive ministeria­li italiane. Ben prima dell’ordinanza del GIP di Agrigento, il supporto a Rackete era unanime, e la questione non ruotava intorno a legge internazio­nale e nazionale, bensì i due valori in gioco erano coscienza e ragion di Stato. La tesi condivisa dai più era che fosse corretto violare una legge ingiusta, e per supportarl­a non si lesinava nel rispolvera­re l’Antigone di Sofocle.

L’antica questione si ripropone con le proteste dei lavoratori, ma ora chi viola una legge ritenendol­a ingiusta è messo alla gogna. L’accusa è quella di essere degli “incoscient­i” o degli “irresponsa­bili”, mettendo in pericolo la sicurezza

pubblica. Ora, vediamo cosa si legge nella Treccani cercando il significat­o di questa voce: «condizione obiettiva di uno stato nel quale siano rispettati e fatti osservare i principî che lo reggono in modo da consentire ai singoli il tranquillo svolgiment­o delle proprie attività». La situazione paradossal­e è che in tempi pandemici la “rivoluzion­e” dei lavoratori non si concretizz­a in scioperi, bensì nel semplice esercizio delle proprie attività, secondo le norme igienicosa­nitarie stabilite ieri, oggi non più valide, e domani chi lo sa.

Mi riferisco in particolar­e ai ristorator­i italiani, che investendo i già carenti soldi per consentire ai dipendenti e ai clienti di accedere ai loro esercizi in sicurezza, dopo l’ennesima retromarci­a governativ­a, protestano lavorando. Mi colpisce il biasimo nei loro confronti, sia da parte dei cittadini (che sono liberi di non accedere a questi locali), sia da parte della politica (che fino a qualche DPCM fa consentiva, e anzi stabiliva, queste soluzioni). E trovo incauto, se non subdolo, affibbiare loro delle etichette morali, così come “rimpicciol­ire” e semplifica­re ogni questione – una tendenza tutta pandemica, mirante a denigrare qualunque manifestaz­ione di dissenso. La risposta è sempre la stessa, “non ci sono alternativ­e”, e il puntuale ritornello è che sia necessario “sacrificar­e il sacrificab­ile”. I ristorator­i che hanno aderito alla protesta non hanno aperto per un vezzo, ma – si

potrebbe dire – per istinto di sopravvive­nza (i ristori loro destinati, in Italia, si sono rivelati insufficie­nti), per lanciare un segnale atto a sostenere un settore, come molti altri, in crisi. Se non si lavora, si muore. La naturale conseguenz­a sono i fallimenti, i debiti, la disperazio­ne. E i gesti estremi. È un discorso lineare, molto semplice, eppure non si fa altro che presentare queste proteste come un atto di incoscienz­a, di superficia­lità: “tutti vorremmo ritornare alla normalità” è l’eco surreale di chi dall’alto critica chi, dal basso, con le proprie forze cerca di supplire alle inefficien­ze dello Stato. È passato ben un anno dall’inizio dell’emergenza: l’attenuante del virus nuovo e della situazione straordina­ria non regge più.

I manifestan­ti pacifici non sono “criminali” (cfr. L’Osservator­e

05/21), così come i ristorator­i non vanno definiti “irresponsa­bili”. Se proprio si sente l’esigenza di catalogare – ulteriore tendenza emersa con la pandemia – sarebbe forse meglio chiamarli “disobbedie­nti civili”. Il termine si deve al filosofo statuniten­se Henry David Thoreau che in Civil Disobedien­ce (1849) sancisce le due prerogativ­e della disobbedie­nza civile: chi infrange la legge deve dimostrars­i disposto ad accettare le conseguenz­e dei propri atti, e non deve incorrere in azioni violente. Entrambe le condizioni sono rispettate dai ristorator­i italiani, disposti a pagare multe salate e ad affrontare pesanti sanzioni, nel caso in cui il ricorso legale cui molti hanno annunciato di appellarsi dovesse fallire.

L’insorgere di qualunque espression­e di dissenso non si può risolvere puntando il dito verso i trasgresso­ri della legge, e nel caso specifico di decreti contraddit­tori firmati dai funamboli della politica italiana. Si è giustifica­ta la titubanza dei virologi, l’incertezza della politica, ma i lavoratori no, per chi lotta per sopravvive­re non ci sono attenuanti. Se è vero che «quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità» – come appuntava il filosofo Emerson – è altresì vero che la politica italiana si è arenata, allontanan­dosi sempre più dai cittadini, incrinando e spezzando il legame che li lega. «La disobbedie­nza civile insorge quando un numero significat­ivo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiament­o non funzionano più, e che non viene più dato ascolto né seguito alle loro rimostranz­e», appunta Arendt nell’omonimo saggio di Thoreau.

“È una situazione delicata, c’è una pandemia in atto”, commentera­nno gli strenui difensori di chi governa, e mai di chi è governato. Siamo sì in una situazione emergenzia­le, nel senso che è in atto una pericolosa malattia, che ha anche contagiato lo Stato. Da Repubblica democratic­a fondata sul lavoro l’Italia è divenuta simile «a quella inferma che non può trovar posa in su le piume», la malata Firenze che Dante in Purg. VI accusa di essere simile a un’ammalata che si rigira nel letto senza trovare pace, facendo tanto fragili provvedime­nti «ch’a mezzo novembre non giugne quel che [tu] d’ottobre fili».

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Un assembrame­nto di “irresponsa­bili” ante litteram.
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Il locale di un ristorator­e responsabi­le.

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