Tra “politicamente corretto” e giustizialismo
Negli Stati Uniti e in Inghilterra il confronto delle opinioni e perfino la libertà dell’insegnamento universitario sono ormai largamente cancel culture, condizionati dalla ovvero la tendenza a escludere dallo spazio pubblico tutto ciò che si considera impresentabile perché in contrasto con l’agenda del politicamente corretto più avanzato, secondo cui non solo il presente, ma anche il passato vanno giudicati implacabilmente al minimo segno di esclusione o prevaricazione rispetto ai diritti delle categorie oppresse: donne, persone di colore, gruppi LGBT, eccetera.
Il gioco è talmente sfuggito di mano che, nel luglio dello scorso anno, un gruppo di artisti, intellettuali, giornalisti e scrittori, alcuni notissimi anche fuori dal mondo anglosassone (fra i quali Rushdie, Chomsky, Rowling, Fukuyama), ha pubblicato a New York un appello che denunciava gli eccessi inquisitori del politicamente corretto, e la minaccia che questo rappresenta per la libertà del pensiero e del confronto di opinioni.
L’iniziativa ha suscitato una vasta eco anche presso commentatori europei, in Italia e in Francia, e anche da noi, pure presso giornali che fino a quel momento non avevano prestato molta attenzione al problema, ma poi gli echi si sono rarefatti e la questione sembra uscita dagli interessi di giornalisti e commentatori, ancora una volta con Il Foglio, la notevole eccezione de che è tra i non molti media, assieme per esempio a Le Causeur in Francia, che dedicano con continuità spazio all’argomento.
Un motivo dell’interesse, naturalmente, era la collocazione dei firmatari nell’area culturale liberal di sinistra, dunque più autorevole e degna di nota, presso la grande stampa, normalmente assai poco critica verso il politicamente corretto, che avrebbe senz’altro snobbato un testo analogo proveniente da destra. E infatti denunce altrettanto ferme cancel cultue appassionate della re,
che demonizza tutto il passato dell’Occidente considerandolo razzista, ostile verso le minoranze, colpevole di suprematismo bianco, “omofobo”, eccetera, non sono mancate in questi anni, ma sempre di segno conservatore o considerato tale: Finkielkraut in Francia, Scruton in Inghilterra, il variegato fronte del tradizionalismo religioso.
Comunque, l’appello ha avuto il merito indubbio di portare un duro attacco al politicamente corretto e cancel culture alla – che ne costituisce la punta estrema e radicalizzata – da una prospettiva “progressista”.
Sei mesi dopo la sua pubblicazione, tuttavia, le cose non sono cambiate in meglio: in Francia la Revue des Deux Mondes, nel numero di gennaio, lancia l’allarme con un editoriale della direttrice Valérie Toranian: la cancel culture «importata dagli Stati Uniti
consiste nell’annullare, denunciare, boicottare, escludere dallo spazio pubblico o professionale qualsiasi persona giudicata infrequentabile per le sue opinioni, il suo comportamento o semplicemente considerata refrattaria alla morale dei tempi nuovi. Si tratta di esercitare una vigilanza costante (woke) per denunciare i crimini della “bianchezza” eterosessuale capitalistica e normativa. Il suo trampolino: i social network. Questi possono letteralmente decretare la morte sociale di un individuo, di un’istituzione».
Questo è l’aspetto più pericoloso: non tanto il fatto di rimuovere o imbrattare statue di grandi uomini perché “razzisti” o, effetto già più grave, di cancellare dai corsi universitari filosofi e politici del passato (l’elenco è sterminato) perché non si sono opposti ai limiti del loro tempo (per esempio non denunciando la schiavitù); l’aspetto più pericoloso è di provocare danni enormi alle persone oggetto di questi violenti attacchi via social. Negli Stati Uniti vi sono intellettuali e giornalisti che hanno dichiarato di autocensurarsi per paura delle conseguenze: cosa deleteria per la qualità del dibattito pubblico. D’altronde gli attaccanti non sembrano desiderare alcun confronto: chiunque non la pensi come loro è un nemico da combattere. Le ricadute sono molteplici.
Una violenta manifestazione di questo moralismo feroce è stato l’uso spregiudicato di Me Too, che ha portato alla morte sociale e ha rovinato persone risultate poi innocenti. Clamoroso il caso della giornalista francese che ha lanciato l’hashtag #BalanceTonPorc: è stata condannata per diffamazione e al versamento di un risarcimento in denaro – la vittima, il presunto molestatore, ha avuto la vita familiare distrutta, guai di salute, azienda disastrata. L’onda lunga però è arrivata ovunque, ed anche il nostro paese non è al riparo da possibili eccessi di giustizialismo sommario e punitivo.
Ma l’intolleranza sta danneggiando anche protagonisti di primo piano del mondo intellettuale e della cultura. Alain Finkielkraut si è distinto in questi anni per l’ampiezza della sua partecipazione al dibattito pubblico nel suo Paese, assumendosi il rischio di esporre un pensiero articolato, non sloganistico, rispettoso della complessità, spesso controcorrente. Questo gli è costato molto anche in passato: è stato volutamente frainteso, attaccato sulla base di una frase isolata dal suo contesto, eccetera, ma recentemente è stato addirittura estromesso dalla rete televisiva LCI con cui collaborava per aver distinto, in una trasmissione, tra riprovazione e linciaggio pubblico in relazione al caso di incesto che ha fatto parlare tutta la Francia. Accusato a causa di ciò, contro ogni evidenza, di giustificare la pedofilia è stato massacrato: oggetto di attacchi violentissimi via social e anche di parte della stampa ha dichiarato che in futuro eviterà argomenti che lo espongano a simili rischi – non per mancanza di coraggio, ma per la volontà di proteggere i suoi famigliari.
Viene così “cancellato”, almeno per gli aspetti più sensibili e controversi, dal dibattito pubblico un accademico di Francia che ha rinunciato alla carriera universitaria per esercitare nella “realtà” il suo mestiere di filosofo, ovvero, per citare le sue parole – «j’essaye, pour ma part, de penser ce qui se passe» – quello di capire e dire ciò che succede.