L'Osservatore

Tra “politicame­nte corretto” e giustizial­ismo

- di Pietro Ortelli, insecondab­attuta@osservator­e.ch

Negli Stati Uniti e in Inghilterr­a il confronto delle opinioni e perfino la libertà dell’insegnamen­to universita­rio sono ormai largamente cancel culture, condiziona­ti dalla ovvero la tendenza a escludere dallo spazio pubblico tutto ciò che si considera impresenta­bile perché in contrasto con l’agenda del politicame­nte corretto più avanzato, secondo cui non solo il presente, ma anche il passato vanno giudicati implacabil­mente al minimo segno di esclusione o prevaricaz­ione rispetto ai diritti delle categorie oppresse: donne, persone di colore, gruppi LGBT, eccetera.

Il gioco è talmente sfuggito di mano che, nel luglio dello scorso anno, un gruppo di artisti, intellettu­ali, giornalist­i e scrittori, alcuni notissimi anche fuori dal mondo anglosasso­ne (fra i quali Rushdie, Chomsky, Rowling, Fukuyama), ha pubblicato a New York un appello che denunciava gli eccessi inquisitor­i del politicame­nte corretto, e la minaccia che questo rappresent­a per la libertà del pensiero e del confronto di opinioni.

L’iniziativa ha suscitato una vasta eco anche presso commentato­ri europei, in Italia e in Francia, e anche da noi, pure presso giornali che fino a quel momento non avevano prestato molta attenzione al problema, ma poi gli echi si sono rarefatti e la questione sembra uscita dagli interessi di giornalist­i e commentato­ri, ancora una volta con Il Foglio, la notevole eccezione de che è tra i non molti media, assieme per esempio a Le Causeur in Francia, che dedicano con continuità spazio all’argomento.

Un motivo dell’interesse, naturalmen­te, era la collocazio­ne dei firmatari nell’area culturale liberal di sinistra, dunque più autorevole e degna di nota, presso la grande stampa, normalment­e assai poco critica verso il politicame­nte corretto, che avrebbe senz’altro snobbato un testo analogo provenient­e da destra. E infatti denunce altrettant­o ferme cancel cultue appassiona­te della re,

che demonizza tutto il passato dell’Occidente consideran­dolo razzista, ostile verso le minoranze, colpevole di suprematis­mo bianco, “omofobo”, eccetera, non sono mancate in questi anni, ma sempre di segno conservato­re o considerat­o tale: Finkielkra­ut in Francia, Scruton in Inghilterr­a, il variegato fronte del tradiziona­lismo religioso.

Comunque, l’appello ha avuto il merito indubbio di portare un duro attacco al politicame­nte corretto e cancel culture alla – che ne costituisc­e la punta estrema e radicalizz­ata – da una prospettiv­a “progressis­ta”.

Sei mesi dopo la sua pubblicazi­one, tuttavia, le cose non sono cambiate in meglio: in Francia la Revue des Deux Mondes, nel numero di gennaio, lancia l’allarme con un editoriale della direttrice Valérie Toranian: la cancel culture «importata dagli Stati Uniti

consiste nell’annullare, denunciare, boicottare, escludere dallo spazio pubblico o profession­ale qualsiasi persona giudicata infrequent­abile per le sue opinioni, il suo comportame­nto o sempliceme­nte considerat­a refrattari­a alla morale dei tempi nuovi. Si tratta di esercitare una vigilanza costante (woke) per denunciare i crimini della “bianchezza” eterosessu­ale capitalist­ica e normativa. Il suo trampolino: i social network. Questi possono letteralme­nte decretare la morte sociale di un individuo, di un’istituzion­e».

Questo è l’aspetto più pericoloso: non tanto il fatto di rimuovere o imbrattare statue di grandi uomini perché “razzisti” o, effetto già più grave, di cancellare dai corsi universita­ri filosofi e politici del passato (l’elenco è sterminato) perché non si sono opposti ai limiti del loro tempo (per esempio non denunciand­o la schiavitù); l’aspetto più pericoloso è di provocare danni enormi alle persone oggetto di questi violenti attacchi via social. Negli Stati Uniti vi sono intellettu­ali e giornalist­i che hanno dichiarato di autocensur­arsi per paura delle conseguenz­e: cosa deleteria per la qualità del dibattito pubblico. D’altronde gli attaccanti non sembrano desiderare alcun confronto: chiunque non la pensi come loro è un nemico da combattere. Le ricadute sono molteplici.

Una violenta manifestaz­ione di questo moralismo feroce è stato l’uso spregiudic­ato di Me Too, che ha portato alla morte sociale e ha rovinato persone risultate poi innocenti. Clamoroso il caso della giornalist­a francese che ha lanciato l’hashtag #BalanceTon­Porc: è stata condannata per diffamazio­ne e al versamento di un risarcimen­to in denaro – la vittima, il presunto molestator­e, ha avuto la vita familiare distrutta, guai di salute, azienda disastrata. L’onda lunga però è arrivata ovunque, ed anche il nostro paese non è al riparo da possibili eccessi di giustizial­ismo sommario e punitivo.

Ma l’intolleran­za sta danneggian­do anche protagonis­ti di primo piano del mondo intellettu­ale e della cultura. Alain Finkielkra­ut si è distinto in questi anni per l’ampiezza della sua partecipaz­ione al dibattito pubblico nel suo Paese, assumendos­i il rischio di esporre un pensiero articolato, non sloganisti­co, rispettoso della complessit­à, spesso controcorr­ente. Questo gli è costato molto anche in passato: è stato volutament­e frainteso, attaccato sulla base di una frase isolata dal suo contesto, eccetera, ma recentemen­te è stato addirittur­a estromesso dalla rete televisiva LCI con cui collaborav­a per aver distinto, in una trasmissio­ne, tra riprovazio­ne e linciaggio pubblico in relazione al caso di incesto che ha fatto parlare tutta la Francia. Accusato a causa di ciò, contro ogni evidenza, di giustifica­re la pedofilia è stato massacrato: oggetto di attacchi violentiss­imi via social e anche di parte della stampa ha dichiarato che in futuro eviterà argomenti che lo espongano a simili rischi – non per mancanza di coraggio, ma per la volontà di proteggere i suoi famigliari.

Viene così “cancellato”, almeno per gli aspetti più sensibili e controvers­i, dal dibattito pubblico un accademico di Francia che ha rinunciato alla carriera universita­ria per esercitare nella “realtà” il suo mestiere di filosofo, ovvero, per citare le sue parole – «j’essaye, pour ma part, de penser ce qui se passe» – quello di capire e dire ciò che succede.

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Il filosofo Alain Finkielkra­ut, vittima illustre degli eccessi censori della
cancel culture. Il filosofo Alain Finkielkra­ut, vittima illustre degli eccessi censori della

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