Ketty Fusco, nel cuore e nella professione
Uno dei lati appassionanti della professione dell’attore di teatro è che ogni sera devi rinascere per la prima volta; la lavagna viene continuamente cancellata. Come hai recitato la sera precedente inevitabilmente si modificherà nella seguente: l’orologio non torna indietro. Questa volta per Ketty Fusco l’orologio si è fermato definitivamente. Ci ha lasciati a 94 anni colei che io considero la più grande attrice che la Svizzera Italiana abbia avuto. E questo mio giudizio che potrebbe sembrare di parte e affettivo è invece oggettivo, avvalorato da quello espresso da un grande critico teatrale italiano del quotidiano L’Avvenire, Odoardo Bertani, che quando venne a vedere nel Teatrino del Palacongressi lo spettacolo intitolato Senza copione di cui curavo la regia e con protagonista Ketty, accompagnato dall’autrice Gina Lagorio e da suo marito, l’editore Garzanti, mi disse: «Non conoscevo quest’attrice e me ne dispiace. Per me sta alla pari di Anna Proclemer, Valeria Moriconi». Insomma, due tra le più grandi attrici della scena italiana di allora. Di Ketty non posso scordarmi la dizione perfetta, i mezzi vocali naturali ed acquisiti con lo studio e l’esperienza, la conoscenza accorta dei ritmi e delle pause che venivano ad arricchire la sua sensibilità e l’umanità e verità che riusciva a trasmettere nelle sue interpretazioni. È stata un’attrice capace di passare facilmente dai grandi classici ai drammi moderni. E se il mio primo ricordo appartiene alla Regina Margherita del Riccardo III con protagonista e regista Alberto Canetta in cui entrambi si esprimevano in un duetto di intensa forza espressiva e siamo nel 1985 sarà poi l’anno dopo con Il mantello di Buzzati per la regia di Letizia Bolzani che cominciammo miracolosamente a fare spettacoli nei ruoli lei di madre e io di suo figlio. Di seguito venne Fruscio d’ombre, bel testo di Andrea Canetta che ne curò la regia e nel 1991, Menzogne della mente di Sam Shepard al Kursaal di Lugano, sempre con regia di Andrea. Poi finalmente Regina madre di Manlio Santanelli con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Solo noi due in scena, madre e figlio in un dialogo serrato e coinvolgente che si rinfacciano una vita intera in una lingua ricca di inflessioni napoletane. Ketty, essendo di origini napoletane da parte di padre, in quell’occasione mi diede delle ottime lezioni di cui ancora oggi mi servo per la costruzione di certi personaggi. Penso che sia per tutta la sua straordinaria attività nel campo della prosa teatrale e radiofonica e sia soprattutto per merito di questa performance che le sia stato giustamente attribuito l’Anello Hans Reinhart. Annunciato da Renato Reichlin alla fine di una replica e che poi fece una commovente laudatio durante la cerimonia di consegna. In quell’occasione Ketty mi volle tra i relatori. Nel frattempo già avevamo fondato Luganoteatro con Silli Togni, figlia di Ketty, sensibile attrice di grande personalità con cui formai un lungo sodalizio artistico; gli attori Gianmario Arringa, Giovanni Battaglia, lo scenografo Alan Luberti, la costumista Erica Ferrazzini e Francesca Giorzi come aiutoregista e ufficiostampa. Io assunsi la direzione artistica e Ketty la presidenza, ponendosi al servizio della compagnia con la sua competenza e la sua cultura. Ho un rimpianto: non aver potuto riprendere uno spettacolo che lei ha molto amato e in cui, come sempre, si dava con generosità e bravura: Lettere d’amore del drammaturgo statunitense A. R. Gurney. E un dispiacere: che in questi anni non sia stata omaggiata come avrebbe meritato in una serata a lei dedicata.
Ketty Fusco fu anche scrittrice, autrice di poesie, spesso pervase da un profondo sentimento religioso e delicatezza di osservazione e prose. Qui in particolare la vogliamo ricordare per l’opera In quell’albergo sul fiume (Dadò, 1999), d’ispirazione autobiografica. Sulle tracce del padre, pochissimo conosciuto, del passato, della guerra. A pochi mesi, come poi raccontò, il padre antifascista, amico di Matteotti, segnalato e seguito dall’OVRA, aveva dovuto fuggire da Napoli e rifugiarsi in America. Aveva poco più di tre anni quando lo vide e lo conobbe si può dire per la prima volta, in un albergo di Coira (quello a cui allude il titolo). E proprio ritrovandosi nel vecchio Volkshaus (oggi Hôtel Chur) per la presentazione di un’antologia dedicata agli scrittori del Grigioni italiano che le si riaprì la ferita e scaturì l’idea del libro: «Ritrovandomi in quell’albergo sul fiume, ho rivissuto momenti stupendi e terribili, quando mio padre tornava per la prima volta per stabilire degli accordi con la famiglia, pensare a dove vivere. Ma anche allora, dovette fuggire improvvisamente perché era ricercato da due emissari dell’OVRA, che si facevano passare per antifascisti. Nel giro di poche ore ripartì, neanche il tempo di salutare. Una mattina mi svegliai e non c’era più; vennero anche all’albergo a cercarlo e minacciarono mia madre…». Tornata a Napoli con la madre, vista la situazione, le perquisizioni continue, ecco la decisione di una nuova vita a Lugano. E qui, quando Ketty aveva otto anni, un’altra visita del padre: «Lui era avvocato, ma in America perse tutto nella crisi seguita al crollo del ’29. Venne a Lugano, sperando di trovare una sistemazione. Mia madre lavorava ma mio padre ebbe grosse difficoltà. Stette con noi circa un anno e poi fu costretto a ritornare in America. Avrebbe potuto rientrare in Italia alla fine della guerra ma morì nel ’44. E per me non fu una vera morte, era solo scritta su un pezzetto di carta, quel telegramma che ci giunse con molto ritardo e per anni ancora sognai d’incontrarlo…».
La figura del padre per il libro venne ricostruita attraverso altre persone della famiglia, una zia che ne parlava, documenti ritrovati in un cassetto, nell’urgenza ormai di scrivere. In quell’intervista (pubblicata sul Giornale del Popolo il 21 marzo del 2000), Ketty Fusco raccontò anche come fu il ritorno nella sua città natale, alla fine della guerra: «Sentii dentro di me un tuffo al cuore improvviso, come quando s’incontra un innamorato. Malgrado le macerie, c’erano entusiasmo, una grande voglia di ricominciare. Ricordo una sera che passammo vicino al Monastero di Santa Chiara in rovina e c’era un vecchietto che, sotto la Luna, suonava la celebre canzone dedicata appunto al Monastero. Provai una fortissima emozione».
La protagonista si chiama Mara, nella finzione letteraria, e dice, ad
Ai funerali dei un certo punto: vecchi compagni piango la sua morte di fuggiasco nel paese dei grattacieli perché Lugano bella non volle dargli il suo pane. La domenica mattina cantavano in piazza le camicie nere per i borghesi del Caffè Federale. E la sua mano stringeva forte la mia passando rasente le case. Io lo guardavo temendo la sua ribellione, poi abbassavo lo sguardo sulle scarpe consunte della sua Resistenza.