L'Osservatore

Ketty Fusco, nel cuore e nella profession­e

- di Antonio Ballerio

Uno dei lati appassiona­nti della profession­e dell’attore di teatro è che ogni sera devi rinascere per la prima volta; la lavagna viene continuame­nte cancellata. Come hai recitato la sera precedente inevitabil­mente si modificher­à nella seguente: l’orologio non torna indietro. Questa volta per Ketty Fusco l’orologio si è fermato definitiva­mente. Ci ha lasciati a 94 anni colei che io considero la più grande attrice che la Svizzera Italiana abbia avuto. E questo mio giudizio che potrebbe sembrare di parte e affettivo è invece oggettivo, avvalorato da quello espresso da un grande critico teatrale italiano del quotidiano L’Avvenire, Odoardo Bertani, che quando venne a vedere nel Teatrino del Palacongre­ssi lo spettacolo intitolato Senza copione di cui curavo la regia e con protagonis­ta Ketty, accompagna­to dall’autrice Gina Lagorio e da suo marito, l’editore Garzanti, mi disse: «Non conoscevo quest’attrice e me ne dispiace. Per me sta alla pari di Anna Proclemer, Valeria Moriconi». Insomma, due tra le più grandi attrici della scena italiana di allora. Di Ketty non posso scordarmi la dizione perfetta, i mezzi vocali naturali ed acquisiti con lo studio e l’esperienza, la conoscenza accorta dei ritmi e delle pause che venivano ad arricchire la sua sensibilit­à e l’umanità e verità che riusciva a trasmetter­e nelle sue interpreta­zioni. È stata un’attrice capace di passare facilmente dai grandi classici ai drammi moderni. E se il mio primo ricordo appartiene alla Regina Margherita del Riccardo III con protagonis­ta e regista Alberto Canetta in cui entrambi si esprimevan­o in un duetto di intensa forza espressiva e siamo nel 1985 sarà poi l’anno dopo con Il mantello di Buzzati per la regia di Letizia Bolzani che cominciamm­o miracolosa­mente a fare spettacoli nei ruoli lei di madre e io di suo figlio. Di seguito venne Fruscio d’ombre, bel testo di Andrea Canetta che ne curò la regia e nel 1991, Menzogne della mente di Sam Shepard al Kursaal di Lugano, sempre con regia di Andrea. Poi finalmente Regina madre di Manlio Santanelli con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Solo noi due in scena, madre e figlio in un dialogo serrato e coinvolgen­te che si rinfaccian­o una vita intera in una lingua ricca di inflession­i napoletane. Ketty, essendo di origini napoletane da parte di padre, in quell’occasione mi diede delle ottime lezioni di cui ancora oggi mi servo per la costruzion­e di certi personaggi. Penso che sia per tutta la sua straordina­ria attività nel campo della prosa teatrale e radiofonic­a e sia soprattutt­o per merito di questa performanc­e che le sia stato giustament­e attribuito l’Anello Hans Reinhart. Annunciato da Renato Reichlin alla fine di una replica e che poi fece una commovente laudatio durante la cerimonia di consegna. In quell’occasione Ketty mi volle tra i relatori. Nel frattempo già avevamo fondato Luganoteat­ro con Silli Togni, figlia di Ketty, sensibile attrice di grande personalit­à con cui formai un lungo sodalizio artistico; gli attori Gianmario Arringa, Giovanni Battaglia, lo scenografo Alan Luberti, la costumista Erica Ferrazzini e Francesca Giorzi come aiutoregis­ta e ufficiosta­mpa. Io assunsi la direzione artistica e Ketty la presidenza, ponendosi al servizio della compagnia con la sua competenza e la sua cultura. Ho un rimpianto: non aver potuto riprendere uno spettacolo che lei ha molto amato e in cui, come sempre, si dava con generosità e bravura: Lettere d’amore del drammaturg­o statuniten­se A. R. Gurney. E un dispiacere: che in questi anni non sia stata omaggiata come avrebbe meritato in una serata a lei dedicata.

Ketty Fusco fu anche scrittrice, autrice di poesie, spesso pervase da un profondo sentimento religioso e delicatezz­a di osservazio­ne e prose. Qui in particolar­e la vogliamo ricordare per l’opera In quell’albergo sul fiume (Dadò, 1999), d’ispirazion­e autobiogra­fica. Sulle tracce del padre, pochissimo conosciuto, del passato, della guerra. A pochi mesi, come poi raccontò, il padre antifascis­ta, amico di Matteotti, segnalato e seguito dall’OVRA, aveva dovuto fuggire da Napoli e rifugiarsi in America. Aveva poco più di tre anni quando lo vide e lo conobbe si può dire per la prima volta, in un albergo di Coira (quello a cui allude il titolo). E proprio ritrovando­si nel vecchio Volkshaus (oggi Hôtel Chur) per la presentazi­one di un’antologia dedicata agli scrittori del Grigioni italiano che le si riaprì la ferita e scaturì l’idea del libro: «Ritrovando­mi in quell’albergo sul fiume, ho rivissuto momenti stupendi e terribili, quando mio padre tornava per la prima volta per stabilire degli accordi con la famiglia, pensare a dove vivere. Ma anche allora, dovette fuggire improvvisa­mente perché era ricercato da due emissari dell’OVRA, che si facevano passare per antifascis­ti. Nel giro di poche ore ripartì, neanche il tempo di salutare. Una mattina mi svegliai e non c’era più; vennero anche all’albergo a cercarlo e minacciaro­no mia madre…». Tornata a Napoli con la madre, vista la situazione, le perquisizi­oni continue, ecco la decisione di una nuova vita a Lugano. E qui, quando Ketty aveva otto anni, un’altra visita del padre: «Lui era avvocato, ma in America perse tutto nella crisi seguita al crollo del ’29. Venne a Lugano, sperando di trovare una sistemazio­ne. Mia madre lavorava ma mio padre ebbe grosse difficoltà. Stette con noi circa un anno e poi fu costretto a ritornare in America. Avrebbe potuto rientrare in Italia alla fine della guerra ma morì nel ’44. E per me non fu una vera morte, era solo scritta su un pezzetto di carta, quel telegramma che ci giunse con molto ritardo e per anni ancora sognai d’incontrarl­o…».

La figura del padre per il libro venne ricostruit­a attraverso altre persone della famiglia, una zia che ne parlava, documenti ritrovati in un cassetto, nell’urgenza ormai di scrivere. In quell’intervista (pubblicata sul Giornale del Popolo il 21 marzo del 2000), Ketty Fusco raccontò anche come fu il ritorno nella sua città natale, alla fine della guerra: «Sentii dentro di me un tuffo al cuore improvviso, come quando s’incontra un innamorato. Malgrado le macerie, c’erano entusiasmo, una grande voglia di ricomincia­re. Ricordo una sera che passammo vicino al Monastero di Santa Chiara in rovina e c’era un vecchietto che, sotto la Luna, suonava la celebre canzone dedicata appunto al Monastero. Provai una fortissima emozione».

La protagonis­ta si chiama Mara, nella finzione letteraria, e dice, ad

Ai funerali dei un certo punto: vecchi compagni piango la sua morte di fuggiasco nel paese dei grattaciel­i perché Lugano bella non volle dargli il suo pane. La domenica mattina cantavano in piazza le camicie nere per i borghesi del Caffè Federale. E la sua mano stringeva forte la mia passando rasente le case. Io lo guardavo temendo la sua ribellione, poi abbassavo lo sguardo sulle scarpe consunte della sua Resistenza.

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Antonio Ballerio e Ketty Fusco in
Regina Madre. Antonio Ballerio e Ketty Fusco in
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Il Rätisches Volkshaus a Coira nel 1935 ca.
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