Il denaro di Dante
Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. // Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale
Il convegno internazionale organizzato da RECEPTIO (Research Centre for European Philological Tradition), Centro di Ricerca per la Tradizione Filologica Europea di Lugano, è stato dedicato quest’anno a “Dante e l’Economia”. Curato da Raffaele Pinto dell’Universitat de Barcelona e Carla Rossi dell’Universität Zürich, ha visto la partecipazione nel corso di due intense giornate di molti illustri commentatori tra cui Gianni Vacchelli (Milano), Jelena Todorovic (Wisconsin), Luciano Rossi (Zurigo), Philippe Guérin (Sorbona), Mariano Pérez Carrasco (Buenos Aires), Juan VarelaPortas de Orduña (Madrid), Bruno Pinchard (Lione), Donatella StocchiPerucchio (Rochester) e altri. Abbozziamo solo alcuni spunti emersi dalle due giornate, poiché sul sito di RECEPTIO si possono riascoltare le varie tesi.
Nel precedente convegno su Dante, tenutosi a Barcellona, era emerso dagli studiosi l’idea di approfondire il tema dell’utopia e del rapporto di Dante con l’economia. Utopia come luogo ideale di terra nuova (più che d’isola che non c’è) ipotizzata da Tommaso Moro ove potessero regnare giustizia e libertà. Dante nel suo “somnium Scipionis” che è la Divina Comme
dia, incontra dapprima l’Inferno, dove signoreggiano i vizi e il loro contrappasso, il Purgatorio che dovrebbe corrispondere alla nostra vita attuale e infine il luogo proprio dell’amore, il Paradiso. Nei confronti della ricchezza Dante in Inferno VII dove vede «gente più ch’altrove troppa» descrive che il comportamento deviante ha radice nell’avarizia, amore sproporzionato per i beni materiali ed esso più che peccato materiale è spirituale, perché qui deriva la rapacità e il tradimento. È sete di accumulare facendo una fatica di Sisifo come uno scarabeo che raccoglie sterco, perché il desiderio è bestia insaziabile e la sete di ricchezza è maledetto fiore di pianta luperina e gli usurai son visti con una borsa al collo legati all’avarizia nulla vedendo altro. Un male all’origine della corruttela della Chiesa, ove sono «in vesta di pastor, lupi rapaci». Per questo l’ideale politico (l’utopia) di Dante è la Monarchia retta da un re che ha già tutto («tutto possedendo nulla può desiderare»). È la Basileia, sorta di ghibellinismo utopico contro l’insaziabilità del monarca locale e avverso all’accrescimento del capitale.
Manca solo al Poeta, perché non poteva conoscerla, la critica all’entropia odierna della macchina produttiva che riduce le persone a numero, ma essa è radicale nel nome di un umanesimo in cui eccelle la dignità dell’essere, anche rimanendo tra i perdenti e gli esuli di questo mondo, come lo stesso Dante. Egli intende redimere l’ingiustizia del mondo nel nome di una Trinità (simbolizzata nelle terzine della Commedia), nella quale l’arte è una somma triade tra Dio, uomo e natura. Una Trinità in cui Dio è alterità, non un “monoteismo” platonico dove l’uno scivola nella fatalità degli integralismi, mentre l’alterità resta il luogo della perfezione, mosaico ove hanno diritto anche le piccole tessere, perché la verità è sinfonica. Così Dante ci fornisce le chiavi della liberazione più che della libertà che resta un cammino per tutti.