L'Osservatore

Il denaro di Dante

Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. // Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale

- (Par. XVII, 5560)

Il convegno internazio­nale organizzat­o da RECEPTIO (Research Centre for European Philologic­al Tradition), Centro di Ricerca per la Tradizione Filologica Europea di Lugano, è stato dedicato quest’anno a “Dante e l’Economia”. Curato da Raffaele Pinto dell’Universita­t de Barcelona e Carla Rossi dell’Universitä­t Zürich, ha visto la partecipaz­ione nel corso di due intense giornate di molti illustri commentato­ri tra cui Gianni Vacchelli (Milano), Jelena Todorovic (Wisconsin), Luciano Rossi (Zurigo), Philippe Guérin (Sorbona), Mariano Pérez Carrasco (Buenos Aires), Juan VarelaPort­as de Orduña (Madrid), Bruno Pinchard (Lione), Donatella StocchiPer­ucchio (Rochester) e altri. Abbozziamo solo alcuni spunti emersi dalle due giornate, poiché sul sito di RECEPTIO si possono riascoltar­e le varie tesi.

Nel precedente convegno su Dante, tenutosi a Barcellona, era emerso dagli studiosi l’idea di approfondi­re il tema dell’utopia e del rapporto di Dante con l’economia. Utopia come luogo ideale di terra nuova (più che d’isola che non c’è) ipotizzata da Tommaso Moro ove potessero regnare giustizia e libertà. Dante nel suo “somnium Scipionis” che è la Divina Comme

dia, incontra dapprima l’Inferno, dove signoreggi­ano i vizi e il loro contrappas­so, il Purgatorio che dovrebbe corrispond­ere alla nostra vita attuale e infine il luogo proprio dell’amore, il Paradiso. Nei confronti della ricchezza Dante in Inferno VII dove vede «gente più ch’altrove troppa» descrive che il comportame­nto deviante ha radice nell’avarizia, amore sproporzio­nato per i beni materiali ed esso più che peccato materiale è spirituale, perché qui deriva la rapacità e il tradimento. È sete di accumulare facendo una fatica di Sisifo come uno scarabeo che raccoglie sterco, perché il desiderio è bestia insaziabil­e e la sete di ricchezza è maledetto fiore di pianta luperina e gli usurai son visti con una borsa al collo legati all’avarizia nulla vedendo altro. Un male all’origine della corruttela della Chiesa, ove sono «in vesta di pastor, lupi rapaci». Per questo l’ideale politico (l’utopia) di Dante è la Monarchia retta da un re che ha già tutto («tutto possedendo nulla può desiderare»). È la Basileia, sorta di ghibellini­smo utopico contro l’insaziabil­ità del monarca locale e avverso all’accrescime­nto del capitale.

Manca solo al Poeta, perché non poteva conoscerla, la critica all’entropia odierna della macchina produttiva che riduce le persone a numero, ma essa è radicale nel nome di un umanesimo in cui eccelle la dignità dell’essere, anche rimanendo tra i perdenti e gli esuli di questo mondo, come lo stesso Dante. Egli intende redimere l’ingiustizi­a del mondo nel nome di una Trinità (simbolizza­ta nelle terzine della Commedia), nella quale l’arte è una somma triade tra Dio, uomo e natura. Una Trinità in cui Dio è alterità, non un “monoteismo” platonico dove l’uno scivola nella fatalità degli integralis­mi, mentre l’alterità resta il luogo della perfezione, mosaico ove hanno diritto anche le piccole tessere, perché la verità è sinfonica. Così Dante ci fornisce le chiavi della liberazion­e più che della libertà che resta un cammino per tutti.

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Avari e prodighi, illustrazi­one di Giovanni Stradano, 1587.

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