Il macinino del caffè
Ultimamente compro del caffè in grani, soprattutto quello proveniente dall’America Latina. Vado in una bottega che sostiene il commercio equo solidale, anche per i tè. Un buon caffè parte dalla scelta della miscela, dall’acqua e dal clima del giorno, il signor Mario, Torrefazione di Corso Vercelli, a Milano, ce lo ricordava, chiuso nel suo camice blu. Di solito, ripongo il contenuto in un vaso di vetro che porta l’etichetta di una marca locale. Giorno dopo giorno il contenuto scende, diminuisce a vista d’occhio, ma la pigrizia fa sì che io rimandi la macinazione fino a quando la superficie del fondo del vaso diventa lucida. Vista la situazione, occorre prendere il nuovo sacchetto, versare i grani nella macchinetta; inizia così l’operazione che dura una decina di minuti. Il rumore dell’oggetto, il gesto di prendere il caffè, sentire l’aroma, forse per una distrazione estiva, mi fa andare dietro nel tempo quando da bambino vedevo mia nonna tenere sul grembiule a fiori un macinino a mano. L’immagine ne trascina un’altra. Ricordo gli inviti a pranzo dallo zio Fernando, livornese, grande amante della pastasciutta, così buona se il sugo era quello di Manola, la moglie. Tra un piatto fondo, le posate, la tovaglia bianca stesa su un tavolo di marmo, mi sporgevo sulla strada piena di Vespe, Fiat 500, Filobus. “Codanera, gratti tu il formaggio?”. Allora, con passo veloce attraversavo l’ingresso fino alla cucina e là, pronto, un altro macinino in legno; pomello rosso, girevole, il cassettino sotto dove non meno del caffè si sprigionava il profumo di pecorino nostrano, messo con attenzione nel solito contenitore. E la grattugia? Anche questa pronta a un intervento dell’ultimo minuto; pan grattato, carote, mela. Che dire? Nel salone di casa nostra, in angolo uno dei primi televisori; nel bagno la lavatrice Candy, nel ripostiglio, l’aspirapolvere. Ben in vista, sul ripiano di un mobile in noce, la radio con scritte le frequenze; leggi, Monteceneri, Luxemburg, Stuttgart e la bellezza di roteare le manopole da sinistra a destra intercettando suoni vari, stridii, vocine perse nell’etere. Durante le giornate della fiera campionaria, la nostra sede RAI trasmetteva qualche film e avevamo la possibilità di stare per un giorno a casa dalla scuola. Ecco, “Le Passe Muraille”, con Bourvil e la regia di Jean Boyer, dove un uomo, Léon Dutilleul, scopre di poter attraversare i muri. Che avventura! Vicino a noi i nuovi compagni, i media caldi e freddi di McLuhan, il suo, “Medium is the Message”. Anni dopo, quel film mi aveva ispirato un tema sui muri: gli oltrepassavano uomini invisibili, altri dotati di un corpo mutevole, come rovesciare gli assunti della fisica. Guardavamo la “sposa elettrica” girare per casa aspirando polvere, magliette, camicie, canottiere, roteare dentro un oblò scuro e veloce. Tutto cambiava sotto i nostri occhi. E il macinino del caffè, quello a mano, dove sarà?
PS: Codanera, è il soprannome dovuto a un ciuffo di capelli neri, ribelle, appena sotto il collo.