Tragedia dei nativi canadesi: il coraggioso gesto di Papa Francesco
Ho seguito con grande interesse il «pellegrinaggio penitenziale» del Papa in Canada da lunedì 24 a venerdì 29 luglio e alla fine sono più le domande che non le certezze, perché, se si vogliono evitare le semplificazioni, si resta disarmati davanti a una complessità impossibile da sciogliere completamente, e a problemi aperti e destinati forse a rimanere tali ancora a lungo.
Papa Francesco ha incontrato nella loro patria i nativi canadesi dopo aver ricevuto a Roma, dal 28 marzo al 1° aprile, rappresentanti delle tre Prime Nazioni, come pure dei Métis, nati dall’incontro di nativi ed Europei, e degli Inuit (in passato chiamati “eschimesi”): «Arrivederci in Canada – aveva detto in quell’occasione – dove potrò meglio esprimervi la mia vicinanza».
E così, compiendo un viaggio di grandissimo significato, la scorsa settimana ha mantenuto la sua promessa di «incontrare e abbracciare le popolazioni indigene» e di riconoscere le corresponsabilità di cattolici al progetto di assimilazione voluto dal Governo canadese: 150.000 bambini tolti ai genitori e collocati per più di un secolo nelle «scuole residenziali» (l’ultima chiusa nel 1996), una metà all’incirca delle quali (139 in tutto) gestite da congregazioni o enti cattolici, le altre da anglicani o da altre confessioni cristiane.
L’insieme dei discorsi di papa Francesco, oltre alle scuse per il modo come «numerosi membri della Chiesa hanno collaborato, anche attraverso l’indifferenza, a questi progetti di distruzione culturale e di assimilazione forzata dei Governi dell’epoca», ha indicato una speranza per il futuro proprio in quella fede (molti nativi sono credenti) che altri hanno «così malamente testimoniato attraverso la potenza e l’apparenza».
Il Papa, prima di scusarsi anche per le violenze e gli abusi perpetrati in alcune di quelle scuole, ha dunque anzitutto denunciato la politica assimilazionista del Governo.
Ha anche chiesto che si faccia piena chiarezza, che si arrivi a una verità storicamente rigorosa, e ha ricordato che non sono mancati donne e uomini di Chiesa che hanno operato con bontà e carità, rifiutandosi di fare di ogni erba un fascio, e rifiutandosi di assecondare le narrazioni più radicali che non si fermano alla formula «genocidio culturale», ma parlano anche di «genocidio fisico».
Secondo queste narrazioni, che si fondano anche sulle fake news sconvolgenti diffuse nel 2021, le «scuole residenziali» sarebbero state dei lager dove si praticavano in modo sistematico sevizie e maltrattamenti, abusi sessuali, violenze di ogni genere, che hanno causato centinaia di morti sepolti in fosse comuni.
Ma di fosse comuni a tutt’oggi non ne sono state trovate: la notizia era di natura ipotetica e si basava su uno studio del rilievo superficiale del terreno. Jacques Rouillard, docente di Storia all’Università di Montreal ed esperto delle scuole residenziali canadesi, smentisce il genocidio fisico: non sono stati effettuati scavi e non si è trovato il resto di un solo bambino (ne erano stati annunciati 215 in una sola fossa).
La stessa Commissione d’indagine canadese ha confermato il genocidio culturale, ma negato quello fisico e biologico, mentre il primo
ministro Justin Trudeau, che ha interesse a scaricare sulla Chiesa tutta l’esecrazione pubblica, ha accolto la falsa notizia come se fosse vera.
Che in quelle scuole vi siano stati alunni maltrattati e abusati sessualmente è certo (il Papa lo ha riconosciuto e chiesto perdono, ma, giustamente, solo in un successivo discorso): ci sono testimonianze strazianti di questo; ma vi sono anche testimonianze di persone che sono state trattate bene. Sappiamo purtroppo che in ogni istituzione o struttura dove vi sia una differenza di potere così forte come quella tra adulti e giovani privi di protezione, la degenerazione perversa e manipolatoria è sempre possibile, ma questa è appunto una degenerazione e non la norma.
Il progetto di assimilazione culturale che implica la decisione di strappare i bambini alla famiglia, cambiando loro il nome e impedendo loro di parlare la propria lingua, è in sé inaccettabile, anche se i piccoli venissero trattati bene. Qui siamo davanti nello stesso tempo a un progetto da condannare in quanto tale e a casi in cui si è verificata una degenerazione anche rispetto a quello stesso progetto. Sono due piani diversi.
D’altronde non c’è bisogno di andare in Canada: progetti simili li abbiamo conosciuti anche noi in Svizzera, e sono venuti alla luce tardi, e troppo tardi hanno cominciato a interrogare le coscienze. Dal 1926 al 1972, conformemente al programma Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse (“Opera di assistenza per i bambini di strada”) della fondazione Pro Juventute, sono stati strappati definitivamente alle famiglie svizzere di nomadi Jenisch, Sinti e Rom 585 bambini (certificati dagli archivi della fondazione stessa, in gran parte secretati per un secolo) e i 2.000 stimati, collocati in istituti o presso altre famiglie con un nuovo nome, che i genitori non hanno più rivisto.
I figli «illegittimi», per legge fino al 1981, venivano strappati alla madre e rinchiusi in istituto fino alla maggiore età. Questa brutta pagina della nostra storia, nel 2017, è stata squadernata, come molti ricorderanno, dal libro autobiografico di uno di quei ragazzi, Sergio Devecchi, nel quale l’autore evoca sofferenze, separazioni forzate, abbandoni (Infanzia rubata. La mia vita di bambino sottratto alla famiglia, traduzione italiana, Casagrande, 2019).
Non più di cinque anni fa, nel 2017, Elena Donazzan, assessore all’istruzione della regione Veneto, ha proposto che ai Rom e ai Sinti debbano essere tolti i figli da 0 a 6 anni per educarli: la stessa cosa che ha proposto e attuato la nostra Pro Juventute dal 1926.
Il grande gesto del Papa, insieme con il tentativo di genocidio culturale dei nativi canadesi voluto dal Governo e al quale hanno colpevolmente collaborato anche istituti gestiti da cattolici, ha implicitamente condannato ogni tentativo del genere, su grande scala o su piccola scala, precisando al contempo che il cristianesimo non implica alcuna imposizione di modelli culturali, ma chiede invece il rispetto delle culture originali dei popoli.