La guerra: politica con altri mezzi?
La striscia di Gaza non trova pace, e proprio alla luce delle riflessioni che ormai da mesi circolano sulle condizioni per poter ancora “giustificare” aggressioni militari o rifornimenti di armi, l’«operazione preventiva» di Israele contro la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) suscita qualche perplessità in più. Praticamente dal nulla, in tre giorni è costata la vita a 44 palestinesi – tra cui non solo il comandante Tayseer al-Jabari e altri alti rappresentanti della PIJ, ma anche 15 bambini – mentre i feriti sono oltre 300. Già qualche giorno prima dell’operazione «Sorgere dell’alba», Israele ha arrestato a Jenin Bassam aSaadi, il leader della Jihad islamica, e temendo una risposta violenta ha attuato ulteriori misure di militarizzazione e isolamento nei confronti di Gaza. Con soli tre giorni di contrasti si tratta dell’attacco più breve dal 2007, e dunque viene valutato da parte israeliana come un successo. Ma resta comunque la domanda se si può ancora parlare di una “guerra giusta” quando nemmeno si prova politicamente ad evitare l’ultima ratio?
Il primo ministro ad interim nonché leader del centrosinistra Yair Lapid ha intanto giustificato l’attacco come «operazione antiterroristica» contro una «minaccia immediata», ossia la PIJ con cui le tensioni negli ultimi mesi si sono intensificate. La PIJ è finanziata dall’Iran ed è dopo l’Hamas la seconda forza militare nella zona palestinese. Quest’ultima però non è intervenuta nel conflitto, in quanto intende realizzare – nella linea dei Fratelli Musulmani – la responsabilità governativa (secondo la Sharia), e così il cessate il fuoco di domenica scorsa sembra per ora stabile.
Qualcuno ipotizza quindi che il vero target dell’attacco israeliano sia appunto l’Iran. Infatti, non si sono fatte attendere le garanzie espresse dal generale iraniano Hossein Salami, comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, nei confronti della PIJ, nonché la minaccia che Israele pagherà un «alto prezzo» per l’«attacco brutale». Inoltre, non è esclusa un’altra ipotesi: ad interrompere la tregua nella striscia di Gaza che persiste dal 2021, è stato un premier che politicamente sente le pressioni dell’opposizione del centrodestra e di Netanyahu. Lapid aveva perciò bisogno di un atto forte per posizionarsi in vista delle elezioni del 1° novembre?
Proprio durante la guerra in Ucraina, il riaccendersi dell’interminabile conflitto di Gaza ci ridimensiona quindi nella speranza di poter distinguere “cause giuste” da “motivi politici” per la guerra. Come si delinea il confine tra una legittima difesa, un’azione antiterroristica, e un attacco violento sproporzionato? Quanto può dipendere la sua determinazione da interessi politici? Domande che lontano da noi come in Afghanistan fino ad un anno fa sembravano più “semplici”. Vicino a noi, tra l’Ucraina ed Israele, si rivelano all’improvviso di nuova complessità.