Douglas Sirk, alla sua maniera
Si conclude il 13 agosto la 75a edizione del Locarno Film Festival, e nel momento in cui scriviamo ancora non ci è dato sapere quale, tra i film del Concorso internazionale, si aggiudicherà l’ambito Pardo d’oro. Tra le molte incognite, però, una certezza: un amore riconfermato, una passione cinefila rinverdita. Douglas Sirk, a cui la kermesse ha dedicato la sua retrospettiva, si conferma un gigante del cinema il cui ascendente non si limita a resistere alle ingiurie del tempo, ma ne esce semmai ogni volta rinvigorito. Lo conferma la storia della “reputazione” di Sirk presso studiosi, critici e appassionati: transfugo dalla Germania nazista, dove mosse i primi passi nel teatro, Sirk divenne a Hollywood un solido ingranaggio dello studio system, cimentandosi con i generi più disparati; a cavallo degli anni 50 la collaborazione con la Universal ne fece un maestro insuperato del melodramma più sanguigno e fiammeggiante, cristallizzato in una manciata di titoli indimenticabili (da Magnifica ossessione nel 1954 a Lo specchio della vita nel 1959, passando per Secondo amore, Come le foglie al vento, Il trapezio della vita); la messa in scena ultra barocca di quei film, così come i sentimenti maiuscoli e spesso parossistici che animano le loro vicende, gli valgono la fama di regista manierista, e Sirk è messo ai margini della Politica degli autori almeno fino agli anni 70, quando la critica femminista e neomarxista riconosce nella recitazione enfatica dei suoi attori e nei cromatismi iper saturi delle sue scenografie gli strumenti di un fine analista del moralismo borghese, addirittura un “sociologo” che, inserendo nelle sue opere un antinaturalismo forzoso – uno straniamento brechtiano, si direbbe –, denuncia sottilmente la violenza implicita dell’american way of life. Di Douglas Sirk si riinnamorano i critici, che avevano scambiato i suoi film per “polpettoni strappalacrime”, e si invaghiscono di lui pure i registi, tanto che Secondo amore ispirerà ben due remake: La paura mangia l’anima di Rainer Werner Fassbinder nel 1974 e Lontano dal paradiso di Todd Haynes nel 2002 (Sirk era a sua volta un autore di remake: il suo Lo specchio della vita è il rifacimento di un film omonimo del 1934 di John M. Stahl). Rivisti oggi, i suoi mélo continuano a sprigionare una potenza inaudita: Sirk non teme l’eccesso, non lesina sul pathos, annovera tra i suoi maestri i tragici greci e scolpisce nell’immaginario collettivo i volti di divi martirizzati, estatici, sfigurati dall’amore o dal dolore (uno su tutti Rock Hudson, con cui collaborerà in ben otto pellicole). I temi trattati da Sirk appaiono compassati, il suo stile ingessato, ma tradiscono invece urgenze profondamente moderne: al centro delle sue opere ci sono la questione razziale, la mascolinità tormentata, la sessualità come forza primigenia e dirompente. I personaggi di Sirk sono lacerati da conflitti sempiterni: come belve irrequiete, non possono rassegnarsi a vivere nelle gabbie dorate che la società impone loro, né riescono a sopravviverne al di fuori.