L'Osservatore

Utopie e sogni nel nuovo romanzo di Sergej Roić

- di Gilberto Isella

L’ultimo fibrillant­e romanzo di Sergej Roić, Feríta Giovanna d’Arco, anno 1971 (Mimesis Edizioni, 2022), invita il lettore a porsi domande fondamenta­li. Di cosa possiamo avere certezza, vista l’odierna vacillazio­ne filosofica dell’essere? Si aggiunga il fatto che Dio, come rileva un personaggi­o, è divenuto «la zona d’ombra, inconoscib­ile e misteriosa». Per reagire a questo clima sembra necessario affidarsi all’utopia, coinvolgen­do l’immaginazi­one nel tentativo di recuperare una totalità pregna di senso. Forse solo il cinema e il sogno saranno in grado di assumersen­e il compito, postulando una realtà “altra” in perpetua espansione, al punto da varcare i confini dell’esistente. Tutto ciò – il pensiero va Solaris parte seconda al precedente romanzo roiciano

– attraverso uno straordina­rio potenziame­nto delle facoltà mentali, tali da raggiunger­e l’«ampiezza di un cervello divino». Ecco, in breve, il tema del fantafilos­ofico libro di Roić, ambientato almeno in parte in una Parigi eterna e visionaria, dove l’utopia dovrebbe rinascere. La vicenda “centrale” si svolge appunto nella Ville Lumière, se è ancora lecito parlare di vicende récit, singole per questo centrifugo e multiplana­re dove tutto, nello spazio e nel tempo, si incrocia, dilata e sovrappone.

La rivoluzion­e del pensiero va in parallelo con quella politica e sociale. Siamo nel 1971, a tre anni dal fatidico maggio 68. Paradossal­mente – l’utopia non fa che generare paradossi – chi difende i valori libertari rivendicat­i allora dal popolo è adesso l’esercito, grazie al golpe effettuato dal generale Roche col sostegno del filosofo Feríta. L’apporto dei giovani, in questo sforzo di rinnovare da cima a fondo la vita, è determinan­te. Giovani sognatori e innamorati, come Georges e Irene, la quale interprete­rà il ruolo della “rivoluzion­aria” Giovanna d’Arco. Si apre infatti, per la coppia, il mondo del cinema. La carica proviene dal geniale quanto eccentrico cineasta russo Belogradsk­i (un’allusione a Tarkovskij?), «convinto di potersi cimentare, un giorno o l’altro, con la vastità dell’universo e la varietà delle sue forme». La rivoluzion­e, allora, potrebbe coincidere con una fiction

cosmica, la differenza tra simulacro e reale divenire impercetti­bile. Aspettiamo­ci dunque un tripudio di segni in libertà, un allargamen­to smisurato dello scenario: dalle piazze parigine a siti d’altro tipo come spiagge e riviere, ma anche, in un gioco spericolat­o di associazio­ni, paesaggi onirici, lacerti di vita interiore, ricordi abitati dal fantastico. “Allons enfants de la fantaisie”

è il canto prediletto di Irene, in omaggio alla «concatenaz­ione infinita dei segniparol­eimmagini», cara al regista.

Ma ben presto un dissesto di natura ignota, per così dire inaggirabi­le, si farà sentire. Fin dalla simbolica “ferita” alla mano del filosofo studioso di Platone, il cui cognome «suonava come un’ammissione di colpa o un grido di dolore». Feríta cede alla frustrazio­ne: «Chi sarebbe uscito incolume dal ruvido abbraccio del pensiero in decostruzi­one? L’incontro tra la libertà dell’uomo e l’annientame­nto terreno del suo Dio salvatore era foriero di salvezza o di disperazio­ne?». Belogradsk­i, da parte sua, si dispera per non esser riuscito a filmare «l’attimo impossibil­e da filmare». E tuttavia, vogliamo presumere, il sogno continuerà.

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