Ucraina: cauto ottimismo e tre domande
Per la prima volta durante questa guerra in Ucraina, in settimana ci sono arrivate – anche al netto delle imponderabilità dell’informazione – delle notizie incoraggianti: tra cui la riconquista di 4000 km2 dall’occupazione russa e la difficoltà di Putin di rifornire il suo esercito con uomini e materiali. Inoltre, il cancelliere Scholz, dopo tre mesi e mezzo, ha ripreso a comunicare con Putin, e i dati economici della Russia rispecchiano sempre di più le conseguenze delle sanzioni (le stime parlano di un meno 15% del PIL entro la fine del 2023). Ciò ha permesso mercoledì a Ursula von der Leyen di presentare un rapporto ottimista sullo Stato dell’Unione.
Pur non giustificando nessun tipo di “bilancio”, questa situazione consente di formulare prime considerazioni. Innanzitutto, la NATO è tornata protagonista – non solo per l’allargamento a Finlandia e Svezia – e l’Europa, economicamente un gigante ma politicamente e militarmente un nano, non potrà assicurarsi pace e benessere al di fuori dell’alleanza con Washington. Dal canto loro i Paesi europei dovranno sostenere gli USA sia nel rafforzare le alleanze con i Paesi che in Asia, il mercato più grande del mondo, si sentono minacciati dalla Cina – dall’Australia a Singapore e Corea del Sud – sia nel prestare attenzione a quei Paesi che in questo momento subiscono le pressioni di Pechino e Mosca. La reazione cinese alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan un mese fa è senz’altro un assaggio della difficoltà di questa impresa.
Inoltre, l’Ucraina uscirà da questo conflitto più orientata verso l’Occidente (NATO, UE), mentre la Russia sarà portata verso un’unione tra disuguali sempre più forte con la Cina, oppure – cosa ancora più preoccupante – in preda ad una pericolosa instabilità politica. Ciò porterà verosimilmente a importanti modifiche degli equilibri mondiali, con l’Occidente che dovrà riposizionarsi sia sul fronte energetico sia di difesa militare, ma anche svolgere un ruolo da protagonista in una futura politica positiva di pace internazionale – che non è “assenza di guerra”.
Infine, si chiude l’era della globalizzazione economica come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni: ciò non significa che si tornerà ad un mondo pre1989, ma che la politica, con i suoi protagonisti, gli Stati, sostituirà l’idea del mercato globale appacificante con l’ideale conflittuale dell’autosufficienza delle nazioni. Poiché nella situazione attuale possiamo costatare come il capitalismo funzioni anche in regimi autoritari e illiberali, è perciò necessario mettere le democrazie in grado di reggere in tale “nuova competizione”.
Sono queste tre preoccupazioni politiche per la libertà che tra ordine internazionale ed economia globale cercano nuove e urgenti risposte – e l’Occidente non deve rinunciare al suo ruolo da protagonista nel trovarle.