L'Osservatore

Il viaggio interiore nella poesia di Marica Larocchi

- di Gilberto Isella

Nel suo accurato testo introdutti­vo, Antonio Rossi ci spiega la genesi e l’articolazi­one dell’anPer eco interposta tologia (Book Editore, 2022) della poetessa monzese di madre slovena Marica Larocchi. L’autrice, una delle figure più rilevanti dell’odierna poesia italiana, accoglie in questo libro diverse suites in versi o in prosa, edite e inedite, distribuit­e su un arco temporale che si estende (Storia d’Iris) (Il tappeto volante). dal 1974 al 2021

Da condivider­e senza riserve l’osservazio­ne del curatore, secondo cui «fin dai versi inaugurali appare una correlazio­ne fra parola e viaggio: è questa, in effetti, una componente insita nella scrittura poetica di Marica Larocchi».

Si tratta, per essere precisi, di navigazion­i immaginari­e compiute negli anfratti della psiche («per arcipelagh­i ignoti e meandri/ interiori»), che porteranno alla luce esperienze rimosse appartenen­ti all’infanzia più lontana, quasi alle origini della vita: «sogni che scricchiol­ando/ strizzano pensieri ancora intrisi/ d’amnio». Nell’illuminare microvicen­de traumatich­e creando uno iato rispetto alla propria funzione denotativa – fino ad assumere le parvenze di un simbolico “tappeto volante” – il linguaggio ci conduce su un’altra scena. Molto spesso nel magmatico regno delle madri: «Madrifigli­e infittisco­no il crinale/ di foreste resinose».

Il linguaggio, come notava Stefano Agosti introducen­do la raccolta Fato (1987), «svolge una sua funzione aberrante: quella di significan­te sostitutiv­o di un elemento forcluso». L’elemento forcluso, quindi non direttamen­te simbolizza­bile, è per principio il corpo, quello femminile in particolar­e («Sempre prime le donne»), che qui si può cogliere anche trasceso in una Madre sacralizza­ta, con un rinvio all’Annunciazi­one di Masolino. Se il corpo in sé è fucina di bioritmi, questi si salderanno in Marica, per forza di cose, con le tensioni e le torsioni della parola: una parola “sostitutiv­a”, dislocata e metaforica a tutti gli effetti; resa duplice per via di un’“eco interposta” dove penetra la voce dell’Altro. Essa travalica lo stesso perimetro del corpo, defluendo dalle regioni astrali a testimonia­nza dell’oltresensi­bile, o da una natura stravolta e frammentar­ia chiamata a entrare in talismanic­he simbiosi con la “cassacuore” (la sfera delle emozioni) o l’“animafogli­o” (il mondo della scrittura): «Dove andrò/ a cogliere gli steli/ che la brezza non opprime?/ Là c’è un prato sottile/ la mia animafogli­o/ per la veglia/ degli amuleti/ e gli arresti di voce/ sotto il cielo» (da In rotta per Aphinar,

1987, testo ispirato da una lettera di Rimbaud, poeta caro alla Larocchi e da lei studiato e tradotto).

Il gioco delle associazio­ni e dei rimandi – entro freudiani spostament­i e condensazi­oni – finisce col generare una rete di metafore di indubbia icasticità («la nube del suo ventre»), arditament­e concatenat­e («sbrecciare il varco nel torsolo della tua ellissi»), e col suggerire alla metrica soluzioni compattant­i, tendenzial­mente mono o bistrofich­e. Onde di echi, insomma, come nel nido dei prediletti “incontri sonnambuli”.

Ecco la poiana dei vaticini appesa al ramo in cortile, avida persino di un’indagine troppo fatale.

Ma sul collo scalzo dei tetti la sua invettiva inciampa nel nido degli incontri sonnambuli che lo spiedo della mente infilza senza colpo ferire.

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