Diritto all’aborto: il dibattito si riaccende
La regolamentazione dell’aborto nei paesi dell’Occidente continua ad essere argomento divisivo, e le tensioni sono riesplose recentemente per la nota sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti del 24 giugno scorso che, contro precedenti sentenze, ha stabilito che il ricorso all’aborto non è un diritto costituzionale. Le reazioni sono state enormi anche in Europa, con preoccupati allarmi rilanciati dalla grande stampa, nel timore che questa decisione – che secondo alcuni riporta indietro di cinquant’anni l’orologio della storia – potesse avere ricadute planetarie, rimettendo in discussione le «conquiste» degli ultimi decenni.
Ancora più recentemente, la questione è tornata in primo piano in Italia, durante la campagna elettorale, e poi in seguito alla vittoria di Giorgia Meloni. Martedì la premier francese Elisabeth Borne ha dichiarato che la Francia, dopo il risultato delle recenti elezioni, starà attenta al rispetto dei diritti umani e del diritto all’interruzione della gravidanza in Italia, quantunque in quel Paese sia in vigore una legge, la 194, che nessuno pensa di abolire né tra i politici del centrodestra né tra le figure eminenti del mondo cattolico.
Infatti, il giorno dopo, il cardinal Ruini, lungamente presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in una notevole intervista sul
ha dichiarato: «spero che la legge 194 sia finalmente attuata anche dove dice che lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». (Fra l’altro, nella stessa intervista, alla domanda su cosa si aspettino dal nuovo governo i cattolici risponde: «Preferirei dirle quello che mi aspetto io. Mi limito a un punto solo, ma decisivo e con un sacco di implicazioni. Il nuovo governo metta al centro dell’attenzione il crollo demografico, che dura da molti anni e che solo da poco tempo la politica ha preso in considerazione, ma in maniera radicalmente insufficiente»).
In realtà, le posizioni che oggi si fronteggiano, dato che una regolamentazione dell’aborto che lo depenalizza entro certi termini è stata accettata praticamente ovunque in Europa, sono quella di coloro che continuano a considerarlo un male, l’interruzione di una vita, e ritengono che il ricorso all’aborto debba essere limitato, e che il feto richieda protezione giuridica, e quella di coloro che lo considerano invece il risultato del diritto della donna di disporre del proprio corpo: prospettiva nella quale i diritti del nascituro sono inesistenti.
Sono questi, in sintesi, i contenuti del confronto innescato dalle rispettive culture di riferimento: da una parte l’aborto è un male perché sopprime una vita, dall’altra l’aborto è il diritto della donna di disporre del proprio corpo. Questo rende difficile l’approdo a leggi non divisive, che tuttavia sono possibili.
La strada non può essere quella di ancorare nelle Costituzioni – come qualcuno vorrebbe fare in Europa per proteggersi dal rischio, a mio parere inesistente, di temute retromarce – il diritto all’aborto: infatti negli USA tale diritto ha comportato in qualche Stato la sua estensione fino al nono mese, e in molti fino a oltre le 25 settimane, e comunque in tutti, prima della sentenza della Corte suprema, ben oltre quanto consentono la maggior parte delle leggi in Europa.
Questo, nella canea che si è scatenata dopo quella sentenza, lo hanno ricordato in pochi, invece proprio questo è il punto: là si era oltre il limite che viene indicato non solo dalla concezione cattolica, ma dalla semplice ragione. L’aborto che si spinge così in là nel tempo è l’uccisione di un essere umano pienamente riconoscibile come tale.
In Svizzera l’aborto non è un diritto della donna, ma è depenalizzato, ossia non è reato nei limiti previsti dalla legge (12 settimane e «pericolo di grave danno fisico o di grave angustia psichica»); in Italia, la legge 194 disciplina l’accesso all’interruzione volontaria della gravidanza, ma prevede consultori, strutture di sostegno per le donne che rinunciano ad abortire, riconosce il diritto all’obiezione di coscienza per il personale sanitario.
È di fatto un “compromesso”, poiché legalizza l’aborto entro limiti definiti (12 settimane) e nello stesso tempo accoglie misure che vanno nel senso di una tutela della maternità e della vita umana dal suo inizio: per questa legge l’aborto non è il diritto della donna di disporre del proprio corpo.
Sottoposta a referendum abrogativo rimase in vigore perché furono respinte entrambe le alternative in votazione: il ritorno a un regime di penalizzazione da una parte, e l’adozione di una legge assai più radicale e senza le misure di sostegno alla maternità dall’altra.
La legge, come è ovvio, non soddisfa pienamente né il mondo cattolico né la cultura laica più radicale in materia, e critiche alla sua applicazione provengono da entrambe le parti, ma solo le ali estreme di entrambi gli schieramenti scalpitano: parte dei tradizionalisti per abrogarla, parte dei progressisti perché non consente un ricorso all’interruzione della gravidanza sufficientemente libero e spedito, fra l’altro a causa degli obiettori di coscienza troppo numerosi.
La posizione morale cattolica, per la quale l’aborto non è mai lecito, non è tuttavia inconciliabile, sul piano legale, con l’accettazione di soluzioni che depenalizzino l’aborto entro termini definiti – si ragiona in termini di male minore, considerando anche il rischio rappresentato dall’aborto clandestino – ma è inconciliabile con la cultura che considera l’aborto un diritto della donna che non trova alcun contrappeso nel diritto del nascituro di vivere, e a causa di questa inconciliabilità non è ben tollerata da chi la considera una palla al piede.
Si avverte infatti oggi una certa insofferenza, da parte della cultura dominante in importanti ambiti del potere politico e mediatico, verso interferenze considerate fastidiose, e rispetto alle quali si sviluppa abbastanza rapidamente una notevole potenza di fuoco.
(Nota bene: non avrei votato per Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, tuttavia considero insopportabili uscite come quella di Elisabeth Borne, e in generale ogni tentativo di delegittimazione pregiudiziale dell’esito non gradito di una votazione popolare).