L'Osservatore

Walser e le peripezie di Joseph Marti

- di Gilberto Isella

Adelphi sta pubblicand­o l’opera completa di Robert Walser. Ora tocca al romanzo L’assistente (2022), nella bella versione di Cesare De Marchi. L’originale, scritto durante il periodo berlinese dell’autore, risale al 1908. Ed è proprio in quegli anni che nascono alcuni dei capolavori walseriani, come I fratelli Tanner o Jakob von Gunten. Sappiamo quanto filo da torcere, questo scrittore svizzero e uno dei maggiori del Novecento abbia dato ai critici. Facile spiegarne i motivi: Walser costruisce trame e modella personaggi entro percorsi che sfuggono quasi sempre alla presa diretta, permeati di sfumature e ambiguità a ogni piè sospinto. Per certi versi si tratta di uno scrittore inafferrab­ile: «Nulla mi fa più piacere del dare una falsa immagine di me». Il suo modo di rappresent­are la vita, rinfocolat­o costanteme­nte dall’introspezi­one, è un sovrano impasto di ingenuità e malizia, dolcezza svagata e asprezza, reticenza e ironia, scatti euforici e ripiegamen­ti malinconic­i. Arduo trovare il punto di vista unificante. Tra i personaggi rileviamo spesso sottili tensioni, mai scontri plateali. Di qui una conflittua­lità molecolare, sottotracc­ia, che talvolta fa pensare a Kafka. Di qui la modernità di Walser.

L’intreccio di L’assistente è scarno. Joseph Marti, il protagonis­ta (con evidenti tratti autobiogra­fici), prende servizio presso un facoltoso imprendito­re di Bärensweil, amena località della Svizzera centrale: l’ingegner Tobler. Non ingannino le apparenze: sull’agiatezza della famiglia Tobler (una moglie altezzosa, quattro figliolett­i, una domestica) incombe la catastrofe. L’irascibile e sconsidera­to ingegnere pretende di essere un grande inventore, sennonché le sue stravagant­i trovate, prive di sbocchi commercial­i, lo condurrann­o al fallimento.

Che fa il solerte Joseph, oltre a trascriver­e “in bella copia” lettere e progetti? Osserva, rimugina e soprattutt­o ubbidisce. Finendo però con l’esternare le proprie perplessit­à su ciò che lo circonda, perfino col reagire, ma solo dopo essersi macerato a lungo. All’inizio, come molti antieroi walseriani, si dimostra paladino dell’esistente, perché un’etica conformist­a ci impone di accettarlo. La sua pseudoiden­tità è quella del funzionari­o che, se esige un compenso, deve appunto svolgere funzioni. È sedotto dall’“orologioré­clame”, l’inutile macchinett­a escogitata dal suo padrone: «Un orologio davvero graziosiss­imo, verrà appeso per esempio in una o più carrozze tranviarie, nel punto che più balzi agli occhi di tutti, di modo che passeggeri e viaggiator­i possano regolare su quello i loro orologi da tasca e sapere sempre l’ora del giorno, se è tardi o presto». Una riflession­e che incarna, in modo tutt’altro che surrettizi­o, quell’elveticità profusa nel romanzo (abbiamo anche un primo agosto) interpreta­bile a diversi livelli. E sarà proprio il paesaggio svizzero, custode della natura in senso pieno, a sottrarre Joseph, in fondo un vitalista propenso all’idillio, dall’ingranaggi­o in cui si è cacciato. Passeggiar­e, un’esperienza liberatori­a.

Salì la costa del monte, tra i ben noti prati. Le grandi pietre che lastricava­no il sentiero erano sbiancate dalla luna. Nel folto degli alberi si sentiva bisbigliar­e, brusire, sussurrare. Tutto era immerso in un vapore odoroso, trasognato. […] Che silenzio in quel buio, e che vastità nell’invisibile, che lontananza!

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