L'Osservatore

L’Italia s’è desta… nel passato?

- di Lucrezia Greppi

“Meloni si prende l’Italia”, un primo piano in bianco e nero a corredo, e una certezza: «il centrosini­stra paga le sue divisioni, incapace di unire le sue forze persino davanti all’arrembaggi­o della destra più estrema degli ultimi anni». L’editoriale apocalitti­co di Ezio Mauro ha così inizio: «dopo il voto bisognerà aspettare le scosse di

assestamen­to», «il Big Bang non si arresta: Conte ha recuperato, Calenda non ha sfondato, il Pd perde terreno». L’origine del cataclisma? «Giorgia Meloni è la vincitrice» delle elezioni (si sottintend­e, ma non è poi così chiaro), di sicuro nella gara dei populismi: «il nazionalis­mo xenofobo della Lega, l’assistenzi­alismo e l’antiélitis­mo dei Cinque Stelle», per non parlare delle «sbandate filoputini­ane» di Berlusconi e Salvini. Non si salva nessuno, per Repubblica pare esserci un unico partito rispettabi­le, tutti gli altri sono impresenta­bili.

Fortuna che c’è una cifra, accanto al volto della leader di Fratelli d’Italia che ci libera dal dubbio: Meloni “non si è presa l’Italia”, nessun golpe, che piaccia o meno, è stata votata (oggi sappiamo) dal 26% degli italiani, e insieme alla sua coalizione, da dodici milioni di elettori. Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi Moderati hanno ottenuto il 44% delle preferenze, una maggioranz­a assoluta sia alla Camera che al Senato. Si tratta di una maggioranz­a tra le più ampie della storia repubblica­na; le elezioni politiche italiane del 2022, per la prima volta dopo quattordic­i anni, hanno indicato un vincitore certo: era dal 2008 che ciò non accadeva, quello guidato da Berlusconi e caduto tre anni dopo con l’arrivo di Mario Monti è stato infatti l’ultimo governo scaturito da una chiara scelta degli elettori. Si sarebbero poi succeduti, come noto, gli esecutivi di Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II e Draghi, tutti sostenuti da forze politiche che si erano presentate in schieramen­ti opposti alle elezioni. Il “potere” è dunque tornato al popolo che ha esercitato un suo sacrosanto diritto, «nelle forme e nei limiti della Costituzio­ne», così come recita l’articolo uno della legge fondamenta­le dello Stato italiano. La sovranità popolare, principio fondante della democrazia (dal greco démos, popolo, e krátos, potere), non gode tuttavia di buona salute – gli astenuti hanno raggiunto la soglia del 36%, più di un italiano su tre ha scelto di non votare – e di buona stima: la si rispetta nella forma, ma non nella sostanza, nel momento in cui si delegittim­ano o demonizzan­o le scelte degli elettori.

Torniamo così all’editoriale di Ezio Mauro, che senza mezzi termini afferma: «il Paese con questo voto sembra aver amnistiato nell’indifferen­za il fascismo storico, tanto da giudicare irrilevant­e il legame che in Fratelli d’Italia persiste con quel deposito di memorie e di simboli». Un “fil noir”, quello dell’eterno fascismo italiano, che lega i titoli dei media nazionali e internazio­nali. Meloni è una «fascista di belle speranze» per il Tagesspieg­el e «il primo leader italiano di estrema destra dopo Mussolini» secondo la CNN e il Washington Post, la Süddeutsch­e Zeitung la definisce «erede di Mussolini», mentre per il Financial Times è la leader di «un partito radicato nell’eredità nazionalis­ta e autoritari­a del fascismo». E ancora, la coalizione vincitrice è definita di estrema destra da El Pais, dalla Bbc e dal Guardian, mentre per lo svizzero Blick è un movimento neofascist­a sostenuto anche da violenti neonazisti. Queste le lecite ma dubbie preoccupaz­ioni degli osservator­i, che si basano su un dato: l’inizio della

militanza politica di Giorgia Meloni nel Fronte della Gioventù, organizzaz­ione giovanile del Movimento Sociale Italiano, partito neofascist­a nella Prima Repubblica, e poi – particolar­e non irrilevant­e, scarsament­e sottolinea­to – in Alleanza nazionale, formazione nata per ripudiare l’eredità dell’ideologia fascista, e che decretò lo scioglimen­to del Msi nel 1995, con la cosiddetta “svolta di Fiuggi”. Quanto alla fiamma tricolore nel simbolo di FdI – già presente in quello del Msi e di AN – Giorgia Meloni ha dichiarato che «non ha niente a che fare con il fascismo, ma è il riconoscim­ento del viaggio fatto dalla destra democratic­a attraverso la storia della nostra Repubblica». Così nell’intervista rilasciata al britannico The

Spectator, che in copertina riporta una caricatura della politica italiana con il titolo “Giorgia Meloni è la donna più pericolosa in Europa?”. Un interrogat­ivo condiviso da The Economist che diventa una certezza per il tedesco Stern che così definisce Meloni: «veleno biondo, che si presenta come una semplice madre cristiana» ma mira a «trasformar­e l’Italia in un regime autoritari­o». Completa la triade attorno cui ruotano le critiche degli osservator­i – partendo da dei dati certi, ma traendo delle conclusion­i discutibil­i – il celebre motto di Meloni, che si dichiara «donna, madre, italiana, cristiana», e che va di pari passo con il tanto contestato «Dio, patria, famiglia», slogan fascista, ma prima ancora mazziniano (che tuttavia ne

I doveri dell’Uomo antepone l’Umanità alla patria). Se si può dubitare della sincerità della dichiarazi­one di Meloni – «è una rivendicaz­ione della propria identità, ma rispettand­o gli altri. Patria, famiglia sono fondamenta­li, come l’identità religiosa credendo però nella laicità dello Stato» – penso sia quantomeno scorretto identifica­re dei principi con le loro possibili degenerazi­oni. Sarà una «vita di merda», come vuole Monica Cirinnà, quella di chi crede in quei valori che vengono esaltati o demonizzat­i da come tira il vento, ma nondimeno sono i principi che guidano tutti i movimenti che si ispirino alla tradizione – di pari dignità rispetto ai partiti progressis­ti – e che non per forza si risolvono in posizioni estremiste.

Nella stampa italiana, al netto dei titoli allarmisti­ci, mi pare dominare un certo equilibrio nei commenti. Ne il Manifesto, dove pur campeggia in primo piano una foto di Meloni che evoca il gesto del saluto romano, si definisce l’esito del voto un «terremoto storico» che vede come vincitrice «una forza orgogliosa­mente erede del Msi, cosa molto diversa da un partito fascista» (Andrea Colombo). “L’Italia va a destra” è invece il titolo de la Stampa, dove si legge che «gli italiani che hanno votato Meloni non lo hanno fatto per nostalgia del fascismo o perché la considerin­o fascista, cosa tra l’altro dubbia» (Marcello Sorgi). Per Il Tempo “Tocca a Giorgia”, «candidando­si, di diritto, ad essere la prima donna premier della Repubblica italiana». Guardando alla stampa svizzera, la Neue Zürcher Zeitung, se nel titolo si chiede se un nuovo regime autoritari­o possa instaurars­i in Italia, conclude che sia improbabil­e il ritorno di una dittatura fascista: «oggi il Paese è molto diverso da quello che era negli anni Venti, le sue strutture democratic­he sono consolidat­e e l’Italia, in ambito politico ed economico, è fortemente integrata in Europa».

L’Italia, dunque, con la vittoria di Giorgia Meloni, ripiomba nel passato? Sicurament­e sì: è ancora troppo lontana dalla forza intellettu­ale di chi nei primi anni 60 condannava sia il fascismo sia il fascismo degli antifascis­ti, e così vicina al sonnecchia­nte Peppone che in Don Camillo monsignore... ma non troppo inveisce in Parlamento al grido di “fascisti!”. Un grido vuoto che alimenta il consenso che si vorrebbe distrugger­e, che banalizza una triste pagina della storia italiana, e che involontar­iamente minimizza il vero coraggio di chi ha combattuto in prima linea quella dittatura, a costo della propria vita, e non con un tweet.

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