Alessandro Ongaro
Creo illusioni ed effetti speciali Ma la vita è un’altra cosa
Si occupa di «fuoco, fiamme ed esplosioni» Alessandro Ongaro, ma non fa l’artificiere. Dall’altra parte dell’Atlantico ce l’hanno portato gli effetti speciali che vediamo nei film. Non solo scene pirotecniche, naturalmente, ma tutto quel «trucco e parrucco» digitale che arricchisce la post-produzione di ogni film, piccolo o grande che sia. «Proprio l’altro giorno ho cercato di spiegareamio padre cosa faccio di mestiere. Gli ho fatto l’esempio di certi architetti, che realizzano il concetto di un progetto e poi si occupano di coordinare il lavoro del loro team. Un lavoro di direzione artistica, più creativo che tecnico».
Sognando California…
Il paragone non gli viene per caso: «Io da ragazzino volevo fare proprio l’architetto. Però al liceo ho fatto l’asino, e all’esame di ammissione non sono passato». Per fortuna «poco dopo i vent’anni sono entrato in una scuola di design a Milano, e lì ho iniziato a usare i computer. Presto mi sono trovato catapultato nel mondo della computer grafica». Si è fatto le ossa fra Lugano e Milano, con video e spot pubblicitari. Con le incertezze e i limiti di una realtà periferica rispetto al cinema. «In America uscivano filmcome Terminator 2 e Jurassic Park », allora il non plus ultra del genere.
L’American dream di Alessandro si realizza nel 2004, quando manda il curriculum alla ESC di San Francisco (quelli che hanno realizzato gli effetti di Matrix, per capirci). «L’homandato via così, senza farmi illusioni. E invece mi hanno assunto. È stato come vincere alla lotteria». Il grande salto. «Ilmio ricordopiùbellodegliUsa è quel primo giornoaSanFrancisco: svegliarsi e scoprire unmondonuovo». Unmondo che ha tenuto fede alla sua fama di El Do-
rado: «Poco dopo ho trovato lavoro alla DreamWorks, aLosAngeles. Unmondo nel quale non conta la raccomandazione, ma le tue capacità e la vogliadimetterti in gioco. Devi portare entusiasmo e fartivedere, insensobuono. Credomi abbia aiutato una personalità piuttosto positiva, allegra». Oltre alla resistenza allo stress: «Quando fai questo lavoro hai sempre a che fare conbrevi scadenze e imprevisti, non puoi permetterti di essere troppo apprensivo». Alessandro sa gestire le pressioni, e se deve sfogarsi gli bastano un po’ di palestra e una corsetta. E poi c’è la spinta vitale di Los Angeles, «un insieme di mondi incui puoivivere comeinunfilm fra surf, piscine, barbecue». È arrivato presto alla posizione di Visual effects supervisor: il boss degli effetti speciali. E non di film qualunque: grandi produzioni quali Shrek e Kung Fu Panda, roba che ti fa trovare sul set con gente come Jack Black, Michelle Pfeiffer, Michael Douglas. «Ho sempre cercato di partecipare al processo creativo, di far uscire le mie idee. All’inizio l’aspetto tecnicononera ilmioforte, anche seho recuperato studiando di notte. Credo chemi abbiaaiutatoancheilmioessere europeo, il fattodi portareunosguardo diverso a livelloestetico, culturale». Di americano deve invece aver preso il gusto per il rischio, se ha lasciato la sicurezza del colosso DreamWorks per trasferirsi a Vancouver, passando «da dieci mesi di sole a dieci mesi di pioggia». La sfida era quella di uscire dai filmdi animazioneperbuttarsi inquelli tradizionali, per così dire. Col sogno di poter lavorare un domani anche su produzioni più piccole, dove «il budget ridotto ti spinge a valorizzarefindall’inizio l’aspetto creativo, la cura della storia, il ricorso a soluzioni originali. A volte il cinema si appoggia troppo alla star di turno e alle scene ad effetto». E poi Alessandro ha già lavorato a piccole produzioni di un certo successo, come la web series Hollywood Hitmen, che ha co-diretto, e la commedia romantica Lust for Love. Cinema indipendente, che punta tutto sulla forza delle idee.
Luci e ombre
Però la vita non è solo cinema e lavoro: «Mi mancano i miei genitori, mia sorella coi miei nipotini. L’aspetto più difficile qua è proprio la solitudine. Ora sono sommerso di lavoro, in Ticino riescoavenire sì e nounpaiodi settimane all’anno». Anche perché «in America, e pure in Canada, l’affetto e l’amicizia si vivono in maniera diversa. Magari all’inizio sono più aperti di noi, ma poi è difficile farsi amici veri, quelli che ti aiutano nel momento del bisogno. Non houna famigliamia qui, e questodi certonon aiuta». Ma lui non è il tipo che si deprime: «È importante non pensare troppo agli eventi che ti perdi, alle persone lontane. Certo, a 45 anni vorrei avvicinarmi più spesso agli affetti, trovare un altro equilibrio. D’altra parte amo ancora il mio lavoro. Mi piace osservare la realtà con lo sguardo di chi poi la dovrà ricreare sullo schermo».