Fughe sportive. Se non sudo, sto male
Se non sudo, sto male
Senza una corsa serale oppure qualche decina di vasche in piscina, senza le ore passate in palestra, lo stretching, i pesi ai bilancieri, gli addominali da scolpire, le flessioni. Senza la fatica, il sudore, le calorie bruciate, l’estremo sforzo muscolare. Senza tutto ciò, tutti i giorni, in ogni momento libero la loro vita è vuota. Non sono atleti professionisti: sono persone comuni per le quali l’attività fisica è diventata una droga.
benefici derivanti dallo svolgere regolarmente attività fisica sono ampiamente riconosciuti, tanto dalla comunità scientifica quanto, a livello più intuitivo, da chiunque ne faccia esperienza. Quando andiamo a correre, a nuotare o in palestra, quando ci mettiamo d’accordo con gli amici per una partita a calcio, quando ci concediamo una passeggiata in montagna oppure c’iscriviamo a un corso di Jujitsu o di Hatha Yoga, lo facciamo perché praticare queste attività ci fa sentire... bene.
Diverse ricerche hanno dimostrato come lo sport contribuisca in misura significativa al mantenimento di un buono stato di salute fisico e mentale, sia nella popolazione adulta che presso i bambini e gli adolescenti. Alcune patologie di interesse epidemiologico, quali l’obesità e le malattie cardio-vascolari, sono co-determinate da uno stile di vita sedentario, non sufficientemente attivo. Inoltre, l’esercizio fisico contribuisce a ridurre lo stress e promuove una migliore integrazione mente-corpo. Come regola generale, dunque, i problemi di salute derivano di solito dal non fare sport; e proprio per questo appare paradossale, o quanto meno controintuitiva, l’idea che possa essere negativo il praticarlo.
La forma del successo
D’altra parte, l’enfasi posta a livello culturale sulla cura della forma fisica è tale da avere permeato altre categorie concettuali, oltre a quella della salute: avere un corpo tonico, magro e «performante» èpermolti sinonimodi suc- cesso. Si tratta naturalmente di una sovrapposizione indebita, alla quale però è difficile resistere quando per esempio apprendiamo che anche nella Silicon Valley, sede dellamoderna élite tecnocratica, la fitness è pregiata tanto quanto gli algoritmi, ai quali peraltro viene assimilata (vedi Fitbit e altri dispositivi indossabili). All’inizio del 2016, Mark Zuckerberg annunciò che il suo proposito per l’anno nuovo era di correre per 365 miglia, e incoraggiò tutti i suoi followers a imitarlo. Tim Cook, amministratore delegato di Apple, dichiara di essere sul tapis roulant ogni mattina alle cinque, mentre Jack Dorsey, a capo di Twitter, è un patito di squats, flessioni e jogging; Brian Chesky, co-fondatore di Airbnb, era un culturista, e si dice che perfino Jeff Bezos ed Elon Musk abbiano «pettorali irresistibili» ( The
Economist, «Revenge of the nerds», 13 agosto 2016).
La formafisica «sportiva» diventa così, nella sensibilità contemporanea, non solo metafora di buona salute, ma anche di qualità come l’intraprendenza, l’assertività, la sicurezza e l’appeal personale. Oggettivamente, al netto delle suggestioni provenienti damassmedia e social network, allenare il proprio corpo può davvero migliorare il senso di fiducia in se stessi: fare sport consente di sperimentare la capacità di esercitare un controllo attivo su di sé, il che normalmente comporta un sensodi autocontrollo conricadute positive in altri settori dell’esperienza (autostima e autoefficacia, sferadei rapporti interpersonali, dimensione lavorativa e sociale). Questo effetto rischia però di assumere una valenza compensatoria nel caso in cui siano presenti delle vulnerabilità psicologiche pregresse.
Una storia esemplare
Fin da quando era alle elementari, Katherine Schreiber, ventotto anni, ricorda di avere avuto problemi nel rapporto con il suo corpo. Talvolta il disagio era così accentuato da sentirsi «troppo brutta» per andare a scuola. Schreiber, che ha collaborato alla redazione di uno studio pubblicato dal
British Medical Journal sui pericoli della dipendenza dallo sport, racconta
di essere stata un’adolescente «estremamente consapevole di sé, ossessionata dalle imperfezioni». Attanagliata dall’insicurezza, scoprì che quando faceva attività fisica quelle sensazioni così spiacevoli si attenuavano, così cominciò ad allenarsi sistematicamente: due volte alla settimana, che presto divennero tre al giorno.
Dopo la laurea, Schreiber, che nel frattempo aveva sviluppato anche un disturbo dell’alimentazione, divenne completamente dipendente da fitness. «Sulla carta funzionavo bene, avevo trovato lavoro presso un giornale e le cose sembravano filare per il verso giusto, ma andavo in palestra tutti i giorni: al mattino prima di recarmi in ufficio, durante la pausa-pranzo e alla sera. Il mio peso si era drasticamente ridotto». La resa lavorativa diminuì e il suo corpo iniziò amandaremessaggi di avvertimento: amenorrea, fratture da stress alle ossa dei piedi, ernie discali. Inoltre, il bisogno di allenarsi di continuo non lasciava margine ad alcun tipo di vita sociale o relazionale.
Un duro «lavoro»
La storia di Schreiber è emblematica di come lo sport possa trasformarsi da spazio libero, ed eventualmente ludico, in una coazione restrittiva che assume un carattere quasi lavorativo. « Allenamento» in inglese si dice work
out, e forse non è un caso che la dipendenza da lavoro e quella da fitness condividano tante caratteristiche, prima fra tutte quella d’innestarsi su comportamenti socialmente desiderabili, il che contribuisce a renderle non immediatamente riconoscibili come nocive. Lo sa bene chi ci è passato: «Dipendenza da fitness? Vorrei tanto averla anch’io!», è il commento che comunemente si sentiva rivolgere Schreiber durante il periodo di «disintossicazione». Eppure i pericoli sono reali. La dipendenza da attività fisica comporta non solo il rischio di farsi male fisicamente, ma anche di trascurare le proprie responsabilità: per esempio, rispetto al lavoro e alla famiglia, che vengono gradualmente subordinati al programma d’allenamento. In caso di forzata «astinenza» possono manifestarsi sintomi d’ansia, irritabilità, irrequietezza, incapacità di dormire o di concentrarsi.
L’assenza che fa star male
All’instaurarsi di questo tipo di dipendenza contribuisce un fattore comprovato da evidenze scientifiche e ben noto agli sportivi: la cosiddetta «euforia del corridore». Dopo un tempo sufficientemente prolungato di attività fisica, soprattutto se di tipo aerobico (corsa, nuoto, ciclismo, sci di fondo ecc.), la persona sperimenta una riduzione del senso di affaticamento suscettibile di sfociare in uno stato di benesseremolto intenso. Gli atleti ne parlano come della leggendaria «zona» (Goldberg, 1988): una condizione di assoluta concentrazione sul qui e ora, caratterizzata da movimenti fluidi, compiuti senza sforzo apparente. Una sorta di «trance agonistica» che è stata variamente ascritta alla sovra-produzione di beta-endorfine, catecolamine e altri neurotrasmettitori sensibili all’esercizio fisico, e che viene perseguita in maniera consapevole dagli sportivi professionisti.
La ricerca di questo tipo di esperienza non significa però, automaticamente, che l’attività fisica sia diventata una dipendenza: per definizione, la condizione di addiction s’instaura non quando un certo comportamento ci fa stare bene, ma quando il non farlo ci fa stare male. Inquesta prospettiva, le persone dipendenti da fitness svolgono attività fisica perché quello è diventato l’unico modo di trovare sollievo da un perdurante stato di stress: una sospensione temporanea dai problemi e dalle complessità della vita quotidiana. In altre parole, non si tratta più di desiderio oppure di piacere, ma di bisogno; è per questo che risulta così difficile farne a meno.
Uno specchio di sé
Sebbene la dipendenza da sport non sia ancora considerata una diagnosi in senso clinico, si riconoscono di solito due tipologie principali: una «primaria», che si manifesta per così dire in forma «pura»; l’altra secondaria, ovvero sviluppata in concomitanza o a seguito di un altro disturbo psicologico, tipicamente quelli dell’alimentazione (anoressia, bulimia) con i quali condivide la forte preoccupazione nei riguardi del corpo. Come esemplificato dal caso Schreiber, un disturbo da dismorfismo corporeo ( preoccupazione per uno o più difetti percepiti nel proprio aspetto fisico) può facilmente essere rintracciato come elemento predisponente allo sviluppo della dipendenza. Nello specifico, questo tipo di disturbo può assumere le caratteristiche di una dismorfia muscolare, e cioè il timore di avere una costituzione troppo gracile, diffuso soprattutto presso gli uomini.
Il comune denominatore di questi disturbi, che tendono a presentarsi insieme, è rappresentato dalla difficoltà a percepire il corpo come l’estensione armonica del proprio sé, quasi che il riflesso di uno specchio appannato, o deformante, si fosse frapposto fra la persona e la sua immagine. Riguadagnareuncontattoautenticocon lapropria realtà interiore è dunque, forse, il modo più efficace per tornare a vedere e a vedersi.
Le persone dipendenti da fitness svolgono attività fisica perché quello è diventato l’unico modo di trovare sollievo da un perdurante stato di stress: una sospensione temporanea dai problemi e dalle complessità della vita quotidiana.