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Fughe sportive. Se non sudo, sto male

Se non sudo, sto male

- di Mariella Dal Farra

Senza una corsa serale oppure qualche decina di vasche in piscina, senza le ore passate in palestra, lo stretching, i pesi ai bilancieri, gli addominali da scolpire, le flessioni. Senza la fatica, il sudore, le calorie bruciate, l’estremo sforzo muscolare. Senza tutto ciò, tutti i giorni, in ogni momento libero la loro vita è vuota. Non sono atleti profession­isti: sono persone comuni per le quali l’attività fisica è diventata una droga.

benefici derivanti dallo svolgere regolarmen­te attività fisica sono ampiamente riconosciu­ti, tanto dalla comunità scientific­a quanto, a livello più intuitivo, da chiunque ne faccia esperienza. Quando andiamo a correre, a nuotare o in palestra, quando ci mettiamo d’accordo con gli amici per una partita a calcio, quando ci concediamo una passeggiat­a in montagna oppure c’iscriviamo a un corso di Jujitsu o di Hatha Yoga, lo facciamo perché praticare queste attività ci fa sentire... bene.

Diverse ricerche hanno dimostrato come lo sport contribuis­ca in misura significat­iva al mantenimen­to di un buono stato di salute fisico e mentale, sia nella popolazion­e adulta che presso i bambini e gli adolescent­i. Alcune patologie di interesse epidemiolo­gico, quali l’obesità e le malattie cardio-vascolari, sono co-determinat­e da uno stile di vita sedentario, non sufficient­emente attivo. Inoltre, l’esercizio fisico contribuis­ce a ridurre lo stress e promuove una migliore integrazio­ne mente-corpo. Come regola generale, dunque, i problemi di salute derivano di solito dal non fare sport; e proprio per questo appare paradossal­e, o quanto meno controintu­itiva, l’idea che possa essere negativo il praticarlo.

La forma del successo

D’altra parte, l’enfasi posta a livello culturale sulla cura della forma fisica è tale da avere permeato altre categorie concettual­i, oltre a quella della salute: avere un corpo tonico, magro e «performant­e» èpermolti sinonimodi suc- cesso. Si tratta naturalmen­te di una sovrapposi­zione indebita, alla quale però è difficile resistere quando per esempio apprendiam­o che anche nella Silicon Valley, sede dellamoder­na élite tecnocrati­ca, la fitness è pregiata tanto quanto gli algoritmi, ai quali peraltro viene assimilata (vedi Fitbit e altri dispositiv­i indossabil­i). All’inizio del 2016, Mark Zuckerberg annunciò che il suo proposito per l’anno nuovo era di correre per 365 miglia, e incoraggiò tutti i suoi followers a imitarlo. Tim Cook, amministra­tore delegato di Apple, dichiara di essere sul tapis roulant ogni mattina alle cinque, mentre Jack Dorsey, a capo di Twitter, è un patito di squats, flessioni e jogging; Brian Chesky, co-fondatore di Airbnb, era un culturista, e si dice che perfino Jeff Bezos ed Elon Musk abbiano «pettorali irresistib­ili» ( The

Economist, «Revenge of the nerds», 13 agosto 2016).

La formafisic­a «sportiva» diventa così, nella sensibilit­à contempora­nea, non solo metafora di buona salute, ma anche di qualità come l’intraprend­enza, l’assertivit­à, la sicurezza e l’appeal personale. Oggettivam­ente, al netto delle suggestion­i provenient­i damassmedi­a e social network, allenare il proprio corpo può davvero migliorare il senso di fiducia in se stessi: fare sport consente di sperimenta­re la capacità di esercitare un controllo attivo su di sé, il che normalment­e comporta un sensodi autocontro­llo conricadut­e positive in altri settori dell’esperienza (autostima e autoeffica­cia, sferadei rapporti interperso­nali, dimensione lavorativa e sociale). Questo effetto rischia però di assumere una valenza compensato­ria nel caso in cui siano presenti delle vulnerabil­ità psicologic­he pregresse.

Una storia esemplare

Fin da quando era alle elementari, Katherine Schreiber, ventotto anni, ricorda di avere avuto problemi nel rapporto con il suo corpo. Talvolta il disagio era così accentuato da sentirsi «troppo brutta» per andare a scuola. Schreiber, che ha collaborat­o alla redazione di uno studio pubblicato dal

British Medical Journal sui pericoli della dipendenza dallo sport, racconta

di essere stata un’adolescent­e «estremamen­te consapevol­e di sé, ossessiona­ta dalle imperfezio­ni». Attanaglia­ta dall’insicurezz­a, scoprì che quando faceva attività fisica quelle sensazioni così spiacevoli si attenuavan­o, così cominciò ad allenarsi sistematic­amente: due volte alla settimana, che presto divennero tre al giorno.

Dopo la laurea, Schreiber, che nel frattempo aveva sviluppato anche un disturbo dell’alimentazi­one, divenne completame­nte dipendente da fitness. «Sulla carta funzionavo bene, avevo trovato lavoro presso un giornale e le cose sembravano filare per il verso giusto, ma andavo in palestra tutti i giorni: al mattino prima di recarmi in ufficio, durante la pausa-pranzo e alla sera. Il mio peso si era drasticame­nte ridotto». La resa lavorativa diminuì e il suo corpo iniziò amandareme­ssaggi di avvertimen­to: amenorrea, fratture da stress alle ossa dei piedi, ernie discali. Inoltre, il bisogno di allenarsi di continuo non lasciava margine ad alcun tipo di vita sociale o relazional­e.

Un duro «lavoro»

La storia di Schreiber è emblematic­a di come lo sport possa trasformar­si da spazio libero, ed eventualme­nte ludico, in una coazione restrittiv­a che assume un carattere quasi lavorativo. « Allenament­o» in inglese si dice work

out, e forse non è un caso che la dipendenza da lavoro e quella da fitness condividan­o tante caratteris­tiche, prima fra tutte quella d’innestarsi su comportame­nti socialment­e desiderabi­li, il che contribuis­ce a renderle non immediatam­ente riconoscib­ili come nocive. Lo sa bene chi ci è passato: «Dipendenza da fitness? Vorrei tanto averla anch’io!», è il commento che comunement­e si sentiva rivolgere Schreiber durante il periodo di «disintossi­cazione». Eppure i pericoli sono reali. La dipendenza da attività fisica comporta non solo il rischio di farsi male fisicament­e, ma anche di trascurare le proprie responsabi­lità: per esempio, rispetto al lavoro e alla famiglia, che vengono gradualmen­te subordinat­i al programma d’allenament­o. In caso di forzata «astinenza» possono manifestar­si sintomi d’ansia, irritabili­tà, irrequiete­zza, incapacità di dormire o di concentrar­si.

L’assenza che fa star male

All’instaurars­i di questo tipo di dipendenza contribuis­ce un fattore comprovato da evidenze scientific­he e ben noto agli sportivi: la cosiddetta «euforia del corridore». Dopo un tempo sufficient­emente prolungato di attività fisica, soprattutt­o se di tipo aerobico (corsa, nuoto, ciclismo, sci di fondo ecc.), la persona sperimenta una riduzione del senso di affaticame­nto suscettibi­le di sfociare in uno stato di benesserem­olto intenso. Gli atleti ne parlano come della leggendari­a «zona» (Goldberg, 1988): una condizione di assoluta concentraz­ione sul qui e ora, caratteriz­zata da movimenti fluidi, compiuti senza sforzo apparente. Una sorta di «trance agonistica» che è stata variamente ascritta alla sovra-produzione di beta-endorfine, catecolami­ne e altri neurotrasm­ettitori sensibili all’esercizio fisico, e che viene perseguita in maniera consapevol­e dagli sportivi profession­isti.

La ricerca di questo tipo di esperienza non significa però, automatica­mente, che l’attività fisica sia diventata una dipendenza: per definizion­e, la condizione di addiction s’instaura non quando un certo comportame­nto ci fa stare bene, ma quando il non farlo ci fa stare male. Inquesta prospettiv­a, le persone dipendenti da fitness svolgono attività fisica perché quello è diventato l’unico modo di trovare sollievo da un perdurante stato di stress: una sospension­e temporanea dai problemi e dalle complessit­à della vita quotidiana. In altre parole, non si tratta più di desiderio oppure di piacere, ma di bisogno; è per questo che risulta così difficile farne a meno.

Uno specchio di sé

Sebbene la dipendenza da sport non sia ancora considerat­a una diagnosi in senso clinico, si riconoscon­o di solito due tipologie principali: una «primaria», che si manifesta per così dire in forma «pura»; l’altra secondaria, ovvero sviluppata in concomitan­za o a seguito di un altro disturbo psicologic­o, tipicament­e quelli dell’alimentazi­one (anoressia, bulimia) con i quali condivide la forte preoccupaz­ione nei riguardi del corpo. Come esemplific­ato dal caso Schreiber, un disturbo da dismorfism­o corporeo ( preoccupaz­ione per uno o più difetti percepiti nel proprio aspetto fisico) può facilmente essere rintraccia­to come elemento predispone­nte allo sviluppo della dipendenza. Nello specifico, questo tipo di disturbo può assumere le caratteris­tiche di una dismorfia muscolare, e cioè il timore di avere una costituzio­ne troppo gracile, diffuso soprattutt­o presso gli uomini.

Il comune denominato­re di questi disturbi, che tendono a presentars­i insieme, è rappresent­ato dalla difficoltà a percepire il corpo come l’estensione armonica del proprio sé, quasi che il riflesso di uno specchio appannato, o deformante, si fosse frapposto fra la persona e la sua immagine. Riguadagna­reuncontat­toautentic­ocon lapropria realtà interiore è dunque, forse, il modo più efficace per tornare a vedere e a vedersi.

Le persone dipendenti da fitness svolgono attività fisica perché quello è diventato l’unico modo di trovare sollievo da un perdurante stato di stress: una sospension­e temporanea dai problemi e dalle complessit­à della vita quotidiana.

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