laRegione - Ticino 7

Oltre le quinte. Il palco dellamente

Il palco della mente

- di Daniele Bernardi

Da tempo il teatro si è dimostrato un valido strumento nei contesti legati al malessere psichico e ai processi di cura. Un’esperienza presente anche in Ticino.

Aquanto pare, il primo a pensarci fu il Marchese de Sade. Col suo trasferime­nto dal carcere di Bicêtre alla clinica di CharentonS­aint-Maurice, il più temuto autore della Francia rivoluzion­aria si dedicò infatti a quella che, assieme alla scrittura, era la sua più grande ossessione: il teatro. Nel 1808 qualcuno ebbe a lamentarse­ne: trovava scandaloso che un uomo del genere, i cui scritti davano il voltastoma­co, imbastisse spettacoli in un ricovero per malati di mente. Subito, il direttore de Coulmier – sicurament­e un illuminato – intervenne in favore del romanziere sostenendo invece di essere «ben felice di avere nel suo ospizio un uomo capace di istruire per la scena gli alienati». Oltre a questa, un’altra notevole testimonia­nza sull’attività di Sade è data dal dottor L. J. Ramon: «Vennero organizzat­i balli, riunioni, concerti, rappresent­azioni teatrali. In questo modo Sade divenne un personaggi­o importante della casa di Charenton: (...) tutto era curato da lui. Sceglieva le opere, e fra queste ve ne erano di sue, assegnava le parti, sovrainten­deva e dirigeva le prove». Come forse alcuni sapranno, attorno a questa particolar­ità del percorso di Sade (autore, forse non c’è bisogno di ricordarlo, di opere indistrutt­ibili quali Justine, Juliette e Le 120 giornate di Sodoma) un altro grande uomo di teatro, Peter Weiss, negli anni Sessanta delNovecen­toscrisse la suapiùcele­bre pièce: il Marat-Sade, appunto. Ciò che forse non è noto è che dal maggio del 1813, dopo dieci anni di internamen­to, l’ostilità nei confronti dello scrittoret­eatrante crebbe a dismisura e a Charenton fu proibita ogni forma di spettacolo.

De Sade morì l’anno successivo, ma con lui non scomparve l’ingombrant­e eredità letteraria che per generazion­i si è cercato invano di nascondere. Scopriamo quindi che, oltre ad aver prodotto un’opera che si fatica ancora oggi a comprender­e – e a leggere –, il «Divin marchese» realizzò la prima esperienza­di teatrosoci­aleedi drammatera­pia.

Dalla Clinique a Casvegno

Molto tempo è trascorso dall’epoca di Sade, e nell’universo psichiatri­co, anche se le problemati­che non mutano, i cambiament­i ci sono stati: il teatro, assieme alla danza, alla musica, alle arti plastiche e alla scrittura, si è rivelato prezioso per quel che riguarda il processodi cura; invirtùdei suoi «oggetti» di lavoro – la persona, il corpo, la voce, lo sguardo – esso rappresent­a un notevole strumento.

Anche nella storia dell’attuale Organizzaz­ione sociopsich­iatrica cantonale (Osc il teatro ha e ha avuto un ruolo importante: dal 1974 la fondazione del Club dei pazienti (meglio conosciuto come il Club ’74), con una serie di pratiche volte a ridefinire il rapporto ospite-operatore proporrà una diversa prospettiv­a sulla dimensione ospedalier­a; e fra le attività spicca L’Atelier Mimo diMendrisi­o, condotto per più di un ventennio da Ettore Pellandini. Diplomatos­i ametà degli anni Cinquanta all’Accademia del Piccolo Teatro, Pellandini si forma inuna delle realtàmedi­che più straordina­rie della Francia del secondo Novecento: la Clinique de La Borde; fondata da Jean Oury e dal filosofo e psicoanali­sta Felix Guattari, questa si distinse proprio per l’impiego delle attività creative e sociali nella pratica della «psicoterap­ia istituzion­ale». Dal gennaio del 1970 Pellandini è assunto come «animatore» all’allora Ospedale neuropsich­iatrico – nel 1969 avevagià lavoratoco­nunprimogr­uppo su La cantatrice calva di Ionesco – per poi diventare capo delle attività socioterap­eutiche. Qui anima unlaborato­rio di espression­e fisica rivolto a pazienti, operatori e a non addetti ai lavori che oltre a produrre spettacoli – Pinocchio (1977), Squarcio di vita (1980), La guerra che verrà (1982), Storia di un... (1984),

La scatola musicale (1996), Don Quichotte (1996), Scampoli (1999) – vuole essereunlu­ogodi riflession­eedi riconfigur­azione dei ruoli.

Rappresent­azioni mentali

Quando nel 2008 proposi un laboratori­o al Club ’74 all’interno dell’Osc, l’esperienza di Pellandini aveva lasciato postoadalt­riattori, registiedi­datti: fra questi Antonello Cecchinato e Antoinette Werner. Il caso volle che nessun altro progetto teatrale avesse luogo in quelmoment­o e, dopo un colloquio con i responsabi­li dell’associazio­ne, vennero pianificat­i i primi incontri. All’epoca la mia attività si svolgeva prevalente­mente a Roma, dove mi ero formato come attore e dove, dal 2006, seguivo il lavoro dello psicoterap­eutapsicoa­nalista Michele Cavallo, oggi direttore didattico del Master in Teatro sociale dell’Università europea di Roma, da tempo impegnato nell’impiego delle arti all’interno dei contesti psichiatri­ci (comunità terapeutic­he, centri diurni ecc.). In quella prima fase, quindi, gli appuntamen­ti erano organizzat­i su dei fine settimana intensivi non finalizzat­i alla realizzazi­one di uno spettacolo. Procedendo, il desiderio di dare concretezz­a al percorso intrapreso portò dapprima all’ideazione di alcuni materiali video e, successiva­mente, all’allestimen­to di vere e proprie pièce (a oggi sei: C’è nessuno?, Bar-

la-füs, Cumplicham­let, Signor Jones,

H come amore, Pezzi di legno). Ancora oggi, daun latoquesta scelta rende inevitabil­e il confronto con le difficoltà di un allestimen­to in un contesto di non profession­isti (assenze, limiti personali, scarsità di tempo); dall’altro evidenzia bisogni, potenziali­tà e risorse che probabilme­nte non avrebbero modo di manifestar­si altrimenti. Non da ultimo, l’atelier teatrale, pensato come spazio aperto volto all’eventuale ideazione di una performanc­e, è anche una sorta di «comunità affettiva in movimento»; al suo interno il partecipan­te trova un modo di collocarsi rispetto a un gruppo chemanmano va definendos­i.

All’opera...

Solitament­e gli incontri hanno luogo il venerdì. Dalle 13.30 i partecipan­ti iniziano a fare capannello all’ingresso del Teatro Centro Sociale, alle spalle del Bar-negozio dell’Osc. L’atelier è affiancato­daalcunime­mbridel «gruppomusi­ca» del Club ’74, quindi fra questi non manca chi si presenta col basso a tracolla o con un cajón sulle spalle. La prima parte del laboratori­o è dedicata all’attività fisica: disposti in cerchio sul palcosceni­co, i partecipan­ti eseguono – e propongono – svariati esercizi di riscaldame­nto mentre la musica accompagna il lavoro. Terminata la messa in moto, si passa alla voce: allo stessomodo, tutti si cimentano nelle emissioni fino ad arrivare a delle piccolemel­odie corali. Quando le prove dello spettacolo non sono ancora iniziate, la seconda metà dell’incontro è destinata a giochi ed esercizi che coinvolgon­o l’ascolto, lo spazio, il ritmo e la parola. Alcuni sono apparentem­ente elementari: passare ai compagni un battito di mani come se questo fosse una palla; modellare l’aria come una statua di argilla; storpiare il viso assumendo una buffa postura; «scolpire» il proprio corpo ispirati da unvocabolo. Altri, piùcomples­si, sipresenta­no invece come deimicro-schemi drammaturg­ici in cui è possibile improvvisa­re seguendo alcune regole. Da un certo punto dell’anno ci si dedica all’allestimen­to, senza che questa sia mai la mera trasposizi­one di un testo: si sceglie un tema, un libro o un racconto sul quale il gruppo è invitato a creare. Per questo gli spettacoli, spesso, non hanno una storia, ma piuttosto un filo rosso al quale si allacciano immagini, suggestion­i, testi e partiture fisiche. Il risultato è un collage di azioni che «poggia» sul nucleo ispiratore da cui si era partiti.

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