Oltre le quinte. Il palco dellamente
Il palco della mente
Da tempo il teatro si è dimostrato un valido strumento nei contesti legati al malessere psichico e ai processi di cura. Un’esperienza presente anche in Ticino.
Aquanto pare, il primo a pensarci fu il Marchese de Sade. Col suo trasferimento dal carcere di Bicêtre alla clinica di CharentonSaint-Maurice, il più temuto autore della Francia rivoluzionaria si dedicò infatti a quella che, assieme alla scrittura, era la sua più grande ossessione: il teatro. Nel 1808 qualcuno ebbe a lamentarsene: trovava scandaloso che un uomo del genere, i cui scritti davano il voltastomaco, imbastisse spettacoli in un ricovero per malati di mente. Subito, il direttore de Coulmier – sicuramente un illuminato – intervenne in favore del romanziere sostenendo invece di essere «ben felice di avere nel suo ospizio un uomo capace di istruire per la scena gli alienati». Oltre a questa, un’altra notevole testimonianza sull’attività di Sade è data dal dottor L. J. Ramon: «Vennero organizzati balli, riunioni, concerti, rappresentazioni teatrali. In questo modo Sade divenne un personaggio importante della casa di Charenton: (...) tutto era curato da lui. Sceglieva le opere, e fra queste ve ne erano di sue, assegnava le parti, sovraintendeva e dirigeva le prove». Come forse alcuni sapranno, attorno a questa particolarità del percorso di Sade (autore, forse non c’è bisogno di ricordarlo, di opere indistruttibili quali Justine, Juliette e Le 120 giornate di Sodoma) un altro grande uomo di teatro, Peter Weiss, negli anni Sessanta delNovecentoscrisse la suapiùcelebre pièce: il Marat-Sade, appunto. Ciò che forse non è noto è che dal maggio del 1813, dopo dieci anni di internamento, l’ostilità nei confronti dello scrittoreteatrante crebbe a dismisura e a Charenton fu proibita ogni forma di spettacolo.
De Sade morì l’anno successivo, ma con lui non scomparve l’ingombrante eredità letteraria che per generazioni si è cercato invano di nascondere. Scopriamo quindi che, oltre ad aver prodotto un’opera che si fatica ancora oggi a comprendere – e a leggere –, il «Divin marchese» realizzò la prima esperienzadi teatrosocialeedi drammaterapia.
Dalla Clinique a Casvegno
Molto tempo è trascorso dall’epoca di Sade, e nell’universo psichiatrico, anche se le problematiche non mutano, i cambiamenti ci sono stati: il teatro, assieme alla danza, alla musica, alle arti plastiche e alla scrittura, si è rivelato prezioso per quel che riguarda il processodi cura; invirtùdei suoi «oggetti» di lavoro – la persona, il corpo, la voce, lo sguardo – esso rappresenta un notevole strumento.
Anche nella storia dell’attuale Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (Osc il teatro ha e ha avuto un ruolo importante: dal 1974 la fondazione del Club dei pazienti (meglio conosciuto come il Club ’74), con una serie di pratiche volte a ridefinire il rapporto ospite-operatore proporrà una diversa prospettiva sulla dimensione ospedaliera; e fra le attività spicca L’Atelier Mimo diMendrisio, condotto per più di un ventennio da Ettore Pellandini. Diplomatosi ametà degli anni Cinquanta all’Accademia del Piccolo Teatro, Pellandini si forma inuna delle realtàmediche più straordinarie della Francia del secondo Novecento: la Clinique de La Borde; fondata da Jean Oury e dal filosofo e psicoanalista Felix Guattari, questa si distinse proprio per l’impiego delle attività creative e sociali nella pratica della «psicoterapia istituzionale». Dal gennaio del 1970 Pellandini è assunto come «animatore» all’allora Ospedale neuropsichiatrico – nel 1969 avevagià lavoratoconunprimogruppo su La cantatrice calva di Ionesco – per poi diventare capo delle attività socioterapeutiche. Qui anima unlaboratorio di espressione fisica rivolto a pazienti, operatori e a non addetti ai lavori che oltre a produrre spettacoli – Pinocchio (1977), Squarcio di vita (1980), La guerra che verrà (1982), Storia di un... (1984),
La scatola musicale (1996), Don Quichotte (1996), Scampoli (1999) – vuole essereunluogodi riflessioneedi riconfigurazione dei ruoli.
Rappresentazioni mentali
Quando nel 2008 proposi un laboratorio al Club ’74 all’interno dell’Osc, l’esperienza di Pellandini aveva lasciato postoadaltriattori, registiedidatti: fra questi Antonello Cecchinato e Antoinette Werner. Il caso volle che nessun altro progetto teatrale avesse luogo in quelmomento e, dopo un colloquio con i responsabili dell’associazione, vennero pianificati i primi incontri. All’epoca la mia attività si svolgeva prevalentemente a Roma, dove mi ero formato come attore e dove, dal 2006, seguivo il lavoro dello psicoterapeutapsicoanalista Michele Cavallo, oggi direttore didattico del Master in Teatro sociale dell’Università europea di Roma, da tempo impegnato nell’impiego delle arti all’interno dei contesti psichiatrici (comunità terapeutiche, centri diurni ecc.). In quella prima fase, quindi, gli appuntamenti erano organizzati su dei fine settimana intensivi non finalizzati alla realizzazione di uno spettacolo. Procedendo, il desiderio di dare concretezza al percorso intrapreso portò dapprima all’ideazione di alcuni materiali video e, successivamente, all’allestimento di vere e proprie pièce (a oggi sei: C’è nessuno?, Bar-
la-füs, Cumplichamlet, Signor Jones,
H come amore, Pezzi di legno). Ancora oggi, daun latoquesta scelta rende inevitabile il confronto con le difficoltà di un allestimento in un contesto di non professionisti (assenze, limiti personali, scarsità di tempo); dall’altro evidenzia bisogni, potenzialità e risorse che probabilmente non avrebbero modo di manifestarsi altrimenti. Non da ultimo, l’atelier teatrale, pensato come spazio aperto volto all’eventuale ideazione di una performance, è anche una sorta di «comunità affettiva in movimento»; al suo interno il partecipante trova un modo di collocarsi rispetto a un gruppo chemanmano va definendosi.
All’opera...
Solitamente gli incontri hanno luogo il venerdì. Dalle 13.30 i partecipanti iniziano a fare capannello all’ingresso del Teatro Centro Sociale, alle spalle del Bar-negozio dell’Osc. L’atelier è affiancatodaalcunimembridel «gruppomusica» del Club ’74, quindi fra questi non manca chi si presenta col basso a tracolla o con un cajón sulle spalle. La prima parte del laboratorio è dedicata all’attività fisica: disposti in cerchio sul palcoscenico, i partecipanti eseguono – e propongono – svariati esercizi di riscaldamento mentre la musica accompagna il lavoro. Terminata la messa in moto, si passa alla voce: allo stessomodo, tutti si cimentano nelle emissioni fino ad arrivare a delle piccolemelodie corali. Quando le prove dello spettacolo non sono ancora iniziate, la seconda metà dell’incontro è destinata a giochi ed esercizi che coinvolgono l’ascolto, lo spazio, il ritmo e la parola. Alcuni sono apparentemente elementari: passare ai compagni un battito di mani come se questo fosse una palla; modellare l’aria come una statua di argilla; storpiare il viso assumendo una buffa postura; «scolpire» il proprio corpo ispirati da unvocabolo. Altri, piùcomplessi, sipresentano invece come deimicro-schemi drammaturgici in cui è possibile improvvisare seguendo alcune regole. Da un certo punto dell’anno ci si dedica all’allestimento, senza che questa sia mai la mera trasposizione di un testo: si sceglie un tema, un libro o un racconto sul quale il gruppo è invitato a creare. Per questo gli spettacoli, spesso, non hanno una storia, ma piuttosto un filo rosso al quale si allacciano immagini, suggestioni, testi e partiture fisiche. Il risultato è un collage di azioni che «poggia» sul nucleo ispiratore da cui si era partiti.