laRegione - Ticino 7

Colson Whitehead. I ragazzi della Nickel

Nel romanzo di ColsonWhit­ehead, la vicenda di un giovane detenuto fa luce sul meccanismo segregazio­nista in un’America Bianca che ricorda quella di oggi.

- Di Erminio Ferrari

ANewYork viveva un ragazzo della Nickel che si faceva chiamare Elwood Curtis. Solo alla fine dello splendido e doloroso ultimo romanzo di Colson Whitehead, I ragazzi della Nickel, sapremo perchÈ «si faceva chiamare così». Ma questo, dopo. Prima una domanda, anzi una chiamata che mi ha fatto correre dietro a questo romanzo – come succede con certi sguardi o certi profumi – oltre a quella venutadaln­omedel suoautore(alquale essere immensamen­te grati per il precedente La ferrovia sotterrane­a). E cioè quel nome, Nickel. E che Whitehead e TomWaits mi perdonino (con tutto che non sapranno mai che dall'altra parte dell'Atlantico c'è un pistola che scrive 'ste cose), ma prima ancora di avere il libro in mano mi sono chiesto se non poteva essere stato quell'Elwood Curtis a scrivere la lettera che il venerato Waits canta in On theNickel, unapietra preziosa in quello scrigno di tesori che è Heartattac­k and wine, uscito nel 1980, quandoWhit­ehead aveva undici anni. «Potranno rompermi le ossa a bastonate», ma resterò fedele a me stesso, scrive un detenuto con la voce di Waits a un amico uscito. Entrambi sanno che ci vuol poco per finire alla Nickel: la poca cura di sÈ, una infrazione alle convenzion­i, una fugada casa.

’But I always be the true‘

Waits aveva scritto la canzone per un film, modesto, ambientato in una zona molto malmessa e malfamata di Los Angeles, chiamata appunto «the Nickel». Quartieri nei quali si entra e dai quali è bendiffici­le uscire, come da una prigione, un riformator­io. Uscire restando autentici, innocenti.

«But I always be true», nonostante le botte e tutto il male appreso, diceva di sÈ anche Elwood Curtis quando finì, per unreatonon­commesso, allaNickel, lo stesso nome che Whitehead assegna alla scuola-riformator­io, teatro della vicenda narrata. Non so se intendesse citare la canzone di Waits o se si tratta di una mia fantasia: non ne ho letto in alcuna recensione, nÈ lui ne ha parlato nelle interviste rilasciate presentand­o il libro). Forse è solo l'illusione di risalireda­unnomeaunv­olto, aunsogno. O a un incubo: quella narrata da Whitehead– chescrivec­omeJamesBa­ldwin e vede lungo comeTa-Neishi Coates – è una storia di fantasia, ma ispiratagl­i da quella autentica della Dozier School for Boys di Marianna, in Florida: ufficialme­nte un istituto di correzione e formazione per ragazzi «problemati­ci», in realtà un centro di detenzione retto dalla norma della violenza e dell'abuso, con i tratti di universo concentraz­ionario, dove una parola poteva significar­e la morte del suo destinatar­io, tanto più se nero. Come provarono le fosse comuni rinvenute alcuni anni dopo la chiusura dell'istituto, nel 2011.

Elwood sarebbe rimasto fedele a se stesso, se lo era ripromesso, e all'ispirazion­e che gli era venuta dall'ascolto diMartin LutherKing at Zion Hill, un lp ricevuto in dono nel 1962, «anche se gli mise intesta le idee che lo avrebbero rovinato». PerchÈ oltre alle ragioni per le quali, nella canzone di Waits, si poteva finirealla­Nickelnel casodiElwo­oduna le superava tutte: era nero. «Negro», come si diceva allora.

Negli anni della lotta per la fine delle leggi Jim Crow, delle botte, dei morsi dei cani aizzati dai poliziotti, degli insulti e le bastonate dei bravi ragazzi bianchi che poi flirtavano sui sedili posteriori dei macchinoni del babbo, e si reputavano liberi dimenandos­i con Elvis, solo l'appello diKing a testimonia­re la fierezza di sÈ attraverso l'amore che avrebbered­entoanchei­propri aguzzini parve dare a Elwood forzaemoti­vo per resistere. A dispetto delle botte ricevute, del disprezzo razziale. Belafonte gliele cantava, ai bianchi; Miles Davis gliele suonava. Che cosa poteva un ragazzino nero, la cui incorrutti­bilità era un'arma spianata contro un ambiente che lo voleva e lo rendeva «nemico»? Niente, se non rispettare un'idea di sÈ, che nelle parole di King trovava conferma. FinchÈ la pallottola sparata dal fucile del direttore della «scuola» non gli si ficcò nella schiena, confermand­o tuttavia che aveva ragione: il suo nome servì a dare una identità nuova all'amicoche fuggiva conluidall­aNickel. Eche avrebbe raccontato.

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