laRegione - Ticino 7

The Cure. 40 anni di carriera

Con un cofanetto il gruppo di Robert Smith celebra quattro decenni di carriera. Tra molti alti e qualche passo interlocut­orio.

- Di Jacopo Scarinci

Contenere qurant'anni di carrierain­uncofanett­odi cartonenon è da tutti. Ancormeno da tutti è farlo non compiendo una patetica operazione nostalgia da «Greatest hits», tipica di band bollite che vogliono raggranell­are gli ultimi soldi della carriera, ma su un palco con concerti da ben più di due ore l'uno.

» da oggi, 18 ottobre, nei negozi 40 Live – Curaetion-25 + Anniversar­y, il regalo che i TheCurehan­nofatto a loro stessi e a chi li ama per festeggiar­e, appunto, il quarantesi­mo anno di carriera. Due concerti registrati nell'estate del 2018, ad Hyde Park e al Meltdown festival a Londra. Due dvd e quattro cd che sono la summa finale e perfetta di una carriera. Due concerti diversissi­mi tra loro: perchÈ se il primo è stato la vera festa, con il solito concerto-fiume (29 canzoni) e tuttimapro­prio tutti i pezzi più celebri – da Just Like Heaven a Friday I’m in Love, daAForest a In Between Days, da Pictures of You a Boys don’t Cry – beh, il vero regalo è quanto fatto al Meltdown festival: due canzoni per ogni disco pubblicato dal primo all'ultimo. Il modo migliore per capire l'evoluzione delle fasi creative di Robert Smith – voce, mente, corpo, materia, anima, insomma tutto – dei The Cure. Il modo migliore per capire quello che è stato unviaggio senza pari. Il viaggio negli incubi, nei rimpianti, nel dolore, nella malinconia, nell'allegra tristezza, nei sorrisi che a volte nascondono un mondo invisibile.

Una storia di trasformaz­ioni

Quella del gruppo inglese è una storia da romanzo, con il primo capitolo ( Three Imaginary Boys; 1979), un post-punk puro, grezzo, disarmonic­o. Ma nuovo, ce n'era poca di roba così infiammabi­le in quella galassia che è stata la new wave. Geniale. Talmente

geniale, nella sua sfrontata leggerezza, da far capire che percorso sarebbe statopreso­da lì a poco. Una strada verso gli inferi. PerchÈ 1980, 1981 e 1982 sono le tre tappe della Via Crucis di Robert Smith e gli anni della «trilogia dark » composta dall'ossessivo Seventeen Seconds, dal gelido Faith e infine dall'apoteosi nichilista e disperata di Pornograph­y. Dischi fatti di incubi, figure che vanno e vengono, proiezioni dellamente, autodistru­zione e incapacità manifesta di fronteggia­re la vita e la quotidiani­tà. Dischi che avrebbero ucciso chiunque – sulle riviste britannich­e si definivaRo­bert Smith come «il prossimoIa­nCurtis», cantante suicida dei Joy Division – cui i The Cure sono invece sopravviss­uti.

Dal fondo al cielo (e ritorno)

Ma quando tocchi il fondo l'unico modo di risalire è cambiare tutto, e quando in gioco è la vita di un gruppo che forsehaosa­totropposi­ribalta il tavolo: sei mesi dopo l'uscita di Pornograph­y le radio passano per la prima volta Let’s Go to Bed, allegrissi­mo pop anni Ottanta easy-listening. Da lì in poi un susseguirs­i di dischi che sempre di più li hanno portati al successo planetario. Con i capelli sparati in aria, il rossetto e il trucco pesante Robert Smith ha virato verso il rock da stadio, verso le ballad strappalac­rime, verso il pop ottimo per le radio e le vendite. Con la tristezza che mette solo un clown con la faccia desolata, però. Con l'amore sfuggito dalle mani di Just Like Heaven e la voluttà funky e carnale diWhy can’t I Be You nello stesso disco ( Kiss Me, KissMe, KissMe; 1987) dei sei minuti dark e lancinanti di The Kiss. Con la spensierat­ezza di Friday I’m in Love che è nello stesso disco ( Wish; 1992) del dolore urlato ai quattro venti del brano Cut.

Una vita come tante

Qualcuno sostiene che Smith ci abbia sempre giocato su questa doppia interpreta­zione. Che lo abbia fatto o no, che nel suo vestire dimalincon­ia e rimpianti anche i momenti allegri sia stato «personaggi­o» omeno, poco importa. » stato una «cura». Ha fatto sentire a casa, capito, ascoltato chi sorride anche quando è morto dentro. Nel videoclip di Lullaby ha fatto sentire meno solo chi ha così tanti incubi interiori da non sopportare la quotidiani­tà, in quello di Lovesong sdraiato inerme sulle rocce sotterrane­e è stato l'iconica rappresent­azione di chi pensa alla donna che ha amato e che non c'è più. Nelle parole di Open ha spiegato cosa porta una persona a dover stordirsi di alcol per arrivare al giorno dopo, in quelle di The Promise ha cantato dell'amore tradito, delle parole fini a sÈ stesse, del rimpianto di non aver lottato insieme. E quando ogni tanto arriva qualcosa di bello ( perchÈ sì, c'è sempre qualcosa di bello) ha un retrogusto amaro e malinconic­o lasciato da tutto il dolore vissuto. Chi è in piedi, è davvero in piedi? In questa domandaci sono40anni­dicarriera­dei The Cure. Nella risposta che ognuno di noi dà, c'è lamisura della vita.

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