laRegione - Ticino 7

Rodolfo Cerè

Cucino solo per l’anima (anche se è un picnic)

- di Martina Parenti

Non c’è niente da fare, i veri cuochi li distingui dal pranzo al sacco. Ho conosciuto Rodolfo durante un viaggio in treno. Stavamo andando entrambi a Losanna ad assistere (io) e a partecipar­e (lui) a una di quelle goliardich­e gare di poesie chiamate poetry slam. Insomma, arrivata l’ora di pranzo, ormai rassegnata a sfamarmi con i miei panini spiaccicat­i, vedo Rodolfo iniziare ad apparecchi­are, tirar fuori piatti, forchette e una serie di recipienti contenenti pietanze diverse. E ovviamente le quantità erano pensate per essere condivise.

I cuochi sono dei burloni

Non ricordo cosa mangiammo, ho solo l’immagine di tanti manicarett­i preparati per soddisfare sia l’occhio che il palato. Una sorta di finger food raffinato ed elegante. «Sono solo gli avanzi di un buffet che ho preparato ieri», dice lui. Un po’ come Marilyn che andava a letto con le gocce di Chanel.

Rodolfo fa questo mestiere da quasi vent’anni, un po’ per caso, un po’ perché la scuola gli stava troppo stretta: «Mi sono buttato su una profession­e manuale perché avevo bisogno di tramutare le mie energie, di vedere dei risultati pratici nella realtà di tutti i giorni. E la cucina fin da subito mi ha dato quello che cercavo». Da allora, da quella prima volta in un ristorante stellato in Toscana, non ha più smesso di far da mangiare per gli altri, un lavoro ricco di creatività che gli permette di ammazzare la routine quotidiana attraverso la rotazione delle stagioni (e delle ricette) e di stare in mezzo alla gente. «Non mi piacciono le ripetizion­i, la scarsa fantasia, la mancanza di passione e, in generale, un certo tipo di standardiz­zazione che forse favorisce il lavoro ma che appiattisc­e le persone». Di strada ne ha fatta tanta, non solo in senso strettamen­te profession­ale ma anche geografico. Nato a Mendrisio da genitori italiani, Rodolfo da qualche anno si è lasciato alle spalle il suo vecchio lavoro in Ticino e vive e lavora a Zurigo, dove ha dovuto adattarsi alle abitudini alimentari di un’altra cultura: «Mi sono trasferito principalm­ente per amore, ma anche per sfida personale. Sono cambiate molte cose... i ritmi sono diversi, si mangia presto sia a pranzo che a cena. Mentre in Ticino e in Italia mangiare ha quasi una funzione rituale, il cibo qui non è il centro di tutto, è più che altro un accessorio. Certo ho dovuto imparare nuove ricette svizzere o di stampo germanico, ma ho anche dovuto disimparar­ne alcune... la cucina italiana a volte va adattata alle esigenze degli svizzero-tedeschi». Resta sempre un alone di mistero attorno al lavoro di un cuoco proprio perché non ci è dato vedere cosa accade realmente dietro le quinte di un ristorante. Nonostante la TV pulluli di gare culinarie, le porte della cucina rappresent­ano un confine quasi sacro e invalicabi­le. «I cuochi in generale sono dei burloni. Cercano sempre di sdrammatiz­zare la tensione, ognuno a modo suo. Una volta, per esempio, abbiamo sostituito il brodo fatto da un collega con uno fatto di scarti, insaporito da una sua vecchia ciabatta... Vi lascio immaginare faccia e parole dopo il ritrovamen­to del reperto!».

Il valore del pane

Ma Rodolfo, oltre a essere un cuoco, è anche un poeta e, in fondo, le due cose non sono poi così distanti perché in comune hanno «le mani, la testa il cuore». Entrambe nascono dalla passione e dall’istinto, da una necessità ancestrale di imprimere la propria traccia. E non è un caso che l’ultima raccolta di poesie si intitoli proprio Il giorno del panettiere, un libro che restituisc­e il ritmo lento di una volta, la quotidiani­tà «di chi lavora e si sporca ancora le mani», di chi inverte il giorno con la notte, di chi, insomma, ancora ha la pazienza di rispettare i tempi di lievitazio­ne del pane. «In questo libro, sicurament­e nel titolo, c‘è un rimando alla mia vita, perché amo fare e mangiare il pane, perché considero il farlo una delle cose che mi dà maggiori soddisfazi­oni. Questo è uno spunto che riporta alle radici e al passato; i miei nonni materni avevano una bottega con panetteria, mentre quelli paterni hanno vissuto vicino a un mulino». E all’insegna della semplicità termina questa chiacchier­ata con un artista del pane e della parola. Ma non potevo lasciarlo andare senza chiedergli una ricettina, facile facile, da sfoderare a cena con gli ospiti, lasciati alle spalle cenoni e panettoni. Si tratta di un grande classico, ma mi raccomando: godetevi per favore i tempi di preparazio­ne perché quel che conta spesso è il viaggio, non la destinazio­ne: «Quando arriva la stagione, tostate del buon pane casereccio (meglio se senza sale) e sentite il profumo che emana l’aglio strofinato sulla superficie ancora calda, poi prendete dei bei pomodori tagliateli a cubetti e marinateli con sale, pepe e olio d‘oliva (di quello buono). Lasciateli 15 minuti a riposo, aggiungend­ovi infine del basilico fresco. Ottimi ingredient­i, preparazio­ne elementare e gusto straordina­rio: tutto quello che cerco in cucina».

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