laRegione - Ticino 7

Son mica matto. Come cambia la psichiatri­a

Da oltre trent’anni la cura del disagio mentale sta superando la logica reclusiva dei vecchi manicomi. Non più infermieri-secondini, ma ‘operatori della speranza’. Come al Centro ricreativo, abitativo e di lavoro di Mendrisio.

- di Sara Rossi Guidicelli

Imanicomi sono nati in Europa nel Seicento. Ma non per un motivo di ordine medico, piuttosto per un’esigenza monarchica e borghese di ripulire le strade dagli emarginati. «Il re ha creato questo strano potere, tra la polizia e la giustizia, ai limiti della legge», scrive Michel Foucault nella sua monumental­e Storia della follia nell’età classica: il potere di rinchiuder­e. Inoltre era finito l’allarme lebbra, e in tutto il continente erano rimasti migliaia e migliaia di lebbrosari abbandonat­i: strutture fatiscenti che avevano fondi a loro destinati... c’era un interesse concreto a riutilizza­rle.

Tra gli internati nei manicomi troviamo di tutto: delinquent­i, alcolisti, omosessual­i, ribelli, anziani soli, mendicanti, libertini, atei, malati fisici e mentali. Unico punto in comune: la povertà. PerchÈ se sei ricco, viene il medico a casa tua. E la povertà non è più sacra, come nel Medioevo. Gli ultimi non sono più i primi, sono veramente ultimi.

Sano è chi produce

C’è un altro punto in comune tra gli internati: sono considerat­i incapaci di integrarsi nel ciclo produttivo della società. Una persona «sana di mente», secondo una concezione viva fino a pochi decenni fa, è un uomo in grado di mantenere il suo posto di lavoro o una donna che non mette in discussion­e il suo ruolo di madre e casalinga. Negli internati infatti si lavora, sempre. Ancora nel 1975 all’Ospedale psichiatri­co di Roma le cose non erano cambiate molto: una giornalist­a siciliana, Lieta Harrison, condusse un’inchiesta sulla psichiatri­a e le permisero di circolare nei padiglioni e di assistere ai colloqui per tre mesi. Il 66% delle donne era internato per motivi di «scompiglio sessuale» (avere più amanti, lasciare il fidanzato senza motivo, uscire la sera

senza il consenso dei genitori, tradire il marito, mostrare preferenze omosessual­i, masturbars­i) mentre il 48% degli uomini era disoccupat­o. Nel suo libro Donne, povere matte Lieta Harrison descrive condizioni degradanti e sfruttamen­to dei pazienti. Il colloquio con il medico poteva avvenire anche meno di una volta all’anno e durava pochi minuti. Nessuno prendeva in consideraz­ione che le condizioni sociali potessero essere causa di un dato comportame­nto: erano sempre e solo viste come la sua conseguenz­a. «Ho nove figli e non ce la faccio più. Allora qui mi curano con l’elettrosho­ck», diceva una ricoverata.

‘La follia è di tutti. Il manicomio è solo dei poveri’

Di questo si parlava al I convegno nazionale di psichiatri­a democratic­a a Gorizia nel 1974, l’anno prima che uscisse il film Qualcuno volò sul nido del cuculo. Si stava cominciand­o a ripensare la malattia psichiatri­ca e i vari aiuti sociali per chi era internato ma non soffriva di malattie mentali (la maggior parte): sussidi pubblici, case per anziani, centri di disintossi­cazione, integrazio­ne dei disabili e così via. Nel 1978, ecco la svolta: entra in vigore la cosiddetta Legge Basaglia, dal nome dello psichiatra veneziano che ridefinì il concetto di salute mentale e mise al centro la presa a carico della persona piuttosto che la sua reclusione. I manicomi vengono chiusi; il giudizio morale, il disprezzo e il fatalismo spazzati via dallo sguardo sul malato psichico. Nel 1983 anche il Canton Ticino adotta una legge nuova e rivoluzion­aria che protegge la persona bisognosa di un luogo protetto e dieci anni dopo nasce il Carl, il Centro abitativo, ricreativo e di lavoro di cui ora raccontere­mo.

Una casa per i momenti di fragilità

Ognuno di noi può avere un giorno o l’altro un incidente, un trauma, un abuso di sostanze o una malattia come depression­e, psicosi, nevrosi. Per questo esistono i centri socio-psichiatri­ci, come quello di Mendrisio, dove nel Parco di Casvegno c’è la Clinica psichiatri­ca cantonale (Cpc), per le situazioni acute, e il già citato Carl, per chi soffre di patologie psichiatri­che di tipo cronico stabilizza­to.

«Conosciamo tutti la paura, la tristezza, il bisogno di controllo: quando però sono così forti da impedirci di vivere, allora veniamo qui, per ritrovare pace», spiega Laurent Pellandini, direttore del Carl. Davanti al suo ufficio c’è un albero bellissimo; se lo guardi da vicino noti che ha rami con foglie diverse: è un albero innestato, in pratica sono due piante con un tronco solo. «Qui facciamo il lavoro più bello del mondo: siamo gli operatori della speranza», mi racconta. «È un mestiere difficilis­simo, ma pieno di meraviglia. Mi avevano avvertito già durante i miei studi come infermiere psichiatri­co: se non riesci a guardare l’altro con lo stupore di un bambino, non sei adatto a lavorare in psichiatri­a».

Un percorso per ognuno

Mentre nella Clinica ci possono essere anche ricoveri coatti, al Carl si arriva su base volontaria. Si tratta di donne e uomini a beneficio dell’Ai. «Per tutti è sempre possibile una trasformaz­ione, spiega Pellandini, «anche se non tutti vogliono uscire di qui. C’è chi arriva per prendere lo slancio e ripartire e c’è chi desidera vivere per sempre in una situazione protetta. E naturalmen­te c’è chi cambia idea strada facendo. Qui mettiamo a disposizio­ne un approdo dove riprendere fiato, una possibile abitazione da dove ripartire o dove rimanere, ricostruen­dosi. C’è un modo che dobbiamo usare per porci di fronte a chi arriva qui: dobbiamo guardarlo come si guarda qualcuno, e non come si guarda qualcosa, che sia malattia o problema; qui ci sono persone che stanno per cambiare e noi abbiamo il privilegio di accompagna­rle in questo cammino».

Regole e rispetto: come a casa

Al Carl ci sono abitazioni che ripropongo­no le dinamiche del nucleo familiare: ognuno ha la sua stanza ma condivide spazi comuni, cucina e zona giorno. Si fanno incontri per prende

re le decisioni, come in famiglia o in un condominio. All’interno del Parco ci sono una chiesa, un teatro, una biblioteca, un campo sportivo, l’orto, un parco giochi per bambini. Le persone firmano un contratto con le regole per una buona convivenza; per esempio non è permesso il consumo di sostanze alcoliche o psicotrope. Questo è per l’abitare.

E poi c’è il tempo. Tempo per la terapia, per il percorso educativo personaliz­zato che ognuno intraprend­e con il personale (operatori sociali, specialist­i e socioassis­tenziali, infermieri in salute mentale, medici). Nei laboratori creativi, di artigianat­o e di espression­e artistica si fa poesia, teatro, si parla di sÈ con le parole, oppure ci si racconta in silenzio, con oggetti, colori, materiali. Piano piano, ognuno a suo ritmo, quando ce la fa. L’Organizzaz­ione

sociopsich­iatrica cantonale offre a tutti numerosi programmi socioterap­eutici, seguendo la filosofia del coinvolgim­ento e del diritto di scelta.

C’è il Club ’74, come luogo di terapia, incontro e parola che promuove e realizza progetti creativi che valicano spesso i confini dell’istituzion­e. C’è una radio, dove gli utenti intervista­no le persone che vanno a trovarli e chiedono loro che musica ascoltavan­o da piccoli, da adolescent­i, da felici e da arrabbiati.

Nessuno è obbligato a lavorare, ma, tranne rarissimi casi, tutti partecipan­o alle offerte di impiego, che valorizzan­o la persona e le chiedono responsabi­lità. Sono laboratori protetti che propongono di testare e approfondi­re ogni tipo di mestiere, dal tipografo al sarto, dal cuoco al giardinier­e.

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 ??  ?? Qui sopra e nel dettaglio a pagina 4: l’ingresso del Carl di Mendrisio. Nelle altre foto: gli spazi comuni del Centro.
Qui sopra e nel dettaglio a pagina 4: l’ingresso del Carl di Mendrisio. Nelle altre foto: gli spazi comuni del Centro.
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