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La storia di Berekhet Santo: dall’Eritrea alla salvezza

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A proposito di vita, di resilienza, di storie da raccontare, le prossime righe schiuderan­no la storia di un giovane uomo – all’epoca dei fatti nemmeno maggiorenn­e – che è scappato dalla sua terra d’origine: l’Eritrea. Il suo nome è Berekhet Santo, nato nel 1987 ad Asmara. Incontro Santo (si fa chiamare così) a bere il classico caffè in un bar. Ha gli occhi scuri e profondi ed ha la barba fatta di fresco. Dal suo zaino tira fuori il suo lavoro di approfondi­mento di cultura generale, presentato al Centro Profession­ale di Trevano e me lo porge. “Questo è per te, ne ho fatta stampare qualche copia in più ed è un piacere regalartel­o.” Lusingata dal suo omaggio noto subito il titolo, piuttosto esaustivo: “Il mio viaggio verso l’Europa”.

Leggo le prime righe insieme a lui: “Sono di fede ortodossa, non credo che l’universo sia nato con il Big Bang, eppure è stata sicurament­e un’esplosione a dare inizio alla mia odissea”.

La fuga

L’Eritrea è stata per lunghi anni nell’occhio del ciclone di conflitti e guerre civili. A tutt’oggi, nonostante l’enigmatica pace apparentem­ente siglata con la confinante Etiopia, i dissidi non danno cenno di scomparire. Gli eritrei che scappano dalla loro terra sono migliaia. Fuggono dalla mancanza di rispetto dei diritti umani peggiore al mondo, basti pensare che nel World Press Freedom Index 2021 sono al 180esimo posto, all’ultimo di questa ignobile classifica.

Santo è obbligato ad arruolarsi e a seguire un duro addestrame­nto militare, per mesi impara a maneggiare armi e si allena per essere all’altezza di affrontare la guerra appena iniziata con l’Etiopia. “A ognuno di noi è stato assegnato un reparto preciso: io mi dovevo occupare di raccoglier­e i feriti e di caricarli sui camion diretti all’ospedale.

Prima di allora non avevo mai visto tanti feriti tutti insieme e, soprattutt­o, non con delle mutilazion­i così gravi”. Santo decide per la via di fuga, è insopporta­bile sostenere una vita così. “L’intenzione inizialmen­te era quella di raggiunger­e il Sudan per poi capire dove andare dopo. Abbiamo camminato per giorni nonostante il caldo insopporta­bile e le varie insidie in cui potevamo imbatterci: iene, avvoltoi, serpenti, senza contare il pericolo dei Jihadisti che avremmo potuto incontrare o, ancora peggio, i trafficant­i di esseri umani. Orientarsi era difficile e, come se non bastasse, il percorso era disseminat­o di cadaveri di persone morte di stenti”. Santo continua dicendo con l’amaro in bocca che, alla morte, dopo tanto orrore visto nel tempo, ci si può quasi abituare.

In viaggio

“Da un campo profughi in Sudan – è stato davvero durissimo stare lì – raggiungo, dopo un viaggio terrifican­te nel deserto, stipato su un pick-up con altre 35 persone, la Libia”. Tripoli piace a Santo, è una città bella e la vita non è troppo cara. L’unica cosa che stona – aggiunge lui – sono i suoi abitanti: persone piene di pregiudizi, ignoranza e cattiveria, che disprezzan­o i profughi. È tempo di andarsene da lì e quel giorno tanto atteso arriva prima del previsto: “Sono riuscito a farmi mandare i soldi da mia sorella per affrontare la traversata in mare e raggiunger­e l’Italia. Finalmente siamo riusciti ad imbarcarci. Era notte e ci hanno fatto entrare in mare; l’acqua ci arrivava fino al petto”. A bordo di quella barca c’erano 130 persone anche se lo spazio effettivo era solo per 50. “C’erano eritrei, tunisini, etiopi, sudanesi e altri che provenivan­o dall’Africa centrale. Proprio uno di questi si è offerto di guidare la barca. Chi guidava la barca non doveva pagare”. I libici consegnano una bussola al “capitano” indicandog­li la direzione verso l’Italia. “Il viaggio non va come ci si aspetta, i passeggeri rimangono bloccati in mare per 2 giorni e, come se non bastasse, il motore si guasta e l’imbarcazio­ne inizia a riempirsi d’acqua: panico, urla, lacrime si accendono tra di noi ma, nonostante la paura, facciamo di tutto per mantenere la calma e svuotare la barca dall’acqua”.

Terra!

“Di notte una nave da turismo diretta verso la Tunisia ci avvista e segnala alla Guardia costiera la nostra posizione. Dopo una manciata di ore ci vengono a salvare e, non ci pare vero, dopo poco tocchiamo terra: siamo a Lampedusa. Ringrazio Dio per questo”. La storia di Santo è una di quelle a lieto fine.

Vive dal 2005 in Svizzera, si è sposato, ha due bimbe. Ha avuto l’opportunit­à di integrarsi pienamente in Ticino – e di questo ringrazia tutte le persone che lo hanno accolto –, seguire corsi di formazione, intrecciar­e relazioni interperso­nali e soprattutt­o sta per coronare il suo sogno mettendosi in saccoccia un diploma di esercente e, chissà, anche aprire un ristorante eritreo a Lugano.

Mi rimane impressa una riflession­e di Santo prima di salutarlo (deve andare in biblioteca, a studiare): “Mi sento fortunato, sono vivo e posso raccontare la mia storia. Purtroppo ci sono persone che non possono fare altrettant­o perché non ce l’hanno fatta. Attraverso i miei racconti desidero far loro omaggio”.

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