Le vite altrui
Alcune settimane fa stavo guardando la televisione e devo avere sbagliato canale. Ho alzato gli occhi e c’era un ragazzino afflitto da una malattia delle ossa di cui non ricordo il nome. Aveva un viso strano e bellissimo. Un viso triangolare, due orecchie molto grandi, una bocca mobile con il labbro superiore che vibrava come la testa di un uccellino. Le labbra tiravano le guance in sorrisi ampi come l’aprirsi di un sipario. Lo stavano intervistando, quel sacchetto rattrappito, alto 90 centimetri, su una sedia a rotelle, che sorrideva.
“Cosa vuoi fare da grande?”.
“Pensavo di fare il pompiere (sorride), ma forse lavorerò in campo informatico”.
Stacco su un gabinetto medico: una parete di radiografie contro il vetro di una lavagna luminosa. Le ossa del ragazzino, perché qualche milione di persone possa scrutare dentro la sua carne e capire meglio cosa lo sta mangiando. Ossa che sembrano coriandoli ingarbugliati, e l’ombra negativa di fili, viti, asticelle. Ossa spezzate e ricomposte come reperti archeologici e il professore in camice bianco che spiega indicandole.
Si tornava al ragazzino e lui, sulle ginocchia che gli sembravano uscire dal petto, rigirava un’asticella.
“Un tirante di metallo”, diceva. “Ne ho uno per braccio e uno per gamba. Vedete è telescopico così si può allungare man mano che cresco. Non che io cresca molto (sorride)”. Ti guardava con due occhi meravigliosi e sorrideva.
Nove operazioni in dieci anni, la madre, il medico e un commento su questo e su quello e un cameraman che non sa più cosa inventare con la carrozzella ripresa dal basso, dall’alto, lontana e vicina. C’era una sola cosa da filmare: quella testa da burattino, con gli occhi da furetto, il sorriso e la luce. Luminoso. Un viso luminoso.
“Me ne sono accorto e sette anni che ero diverso. Cioè lo sapevo anche prima, ma a sette anni me ne sono accorto. All’inizio ho provato pietà per me stesso e mi commiseravo, poi mi sono detto che c’era ancora molto da fare nella vita, che potevo viverla la vita”.
Te lo giuro sorrideva, con la voce che scivolava via leggera e gli occhi sereni.
Basta. Non c’è altro. Non si può dire altro. A queste storie non è lecito formulare la morale: la sporchi.
Molti anni fa, quando forse avevo l’età di quel ragazzino, abitavo con i miei in montagna e all’imbrunire scendevo per un viottolo per andare in latteria a comprare il latte appena munto, quello ancora caldo con la schiuma, hai presente? No, tu sei della generazione del Tetrapak. Figurati! Comunque, era già buio e d’un tratto vedo un piccolo foro per terra tra due sassolini e da quel foro usciva una luce. Ho appoggiato il secchiello del latte e mi sono accovacciato. Un buco luminoso, proprio sul ciglio della strada, e nel mio universo non c’era una sola spiegazione plausibile per un buco luminoso. Certo, all’epoca non sapevo che esistessero le femmine delle lucciole, che non volano e hanno il sedere luminoso. Quindi ho pensato che doveva essere un forellino sulla volta di una grotta, una grande grotta illuminata, forse piena di tesori, e che se avessi scavato un po’ avrei potuto vivere un’avventura meravigliosa.
Ho preso il secchiello e, con il cuore che batteva forte... sono tornato a casa. Sono tornato a casa e basta. Oggi so perché: perché non è la conclusione che conta, ma l’attimo. Dai sogni ci si sveglia, dalle avventure si ritorna, le grotte magiche sono quasi sempre solo il sedere di un insetto, ma quei secondi inebrianti tra la paura e il desiderio, rimangono per sempre.
Quando la vita ti sospinge davanti agli occhi, tuo malgrado, un ragazzino di quindici anni alto novanta centimetri che dice che la vita è da vivere, non bisogna capire, analizzare, spiegare, bisogna solo sentirselo dentro come un mistero ineffabile; dentro, oltre la scorza razionale, oltre le morali e le conclusioni, come uno scaldino dell’anima.
D’altronde, ai vecchi le morali non servono. Sono i giovani che pensano che il mondo abbia una struttura, che ci siano lezioni da imparare, conclusioni da trarre. A sessant’anni tutt’al più si è come l’impiegato delle poste: si distribuisce ogni cosa nella propria casella. Il passato, il presente, il futuro. Giusto un po’ di ordine per capire sempre meno, come un eunuco che difende il desiderio altrui senza capirlo.