L’uomo e il ‘drago dentro’
Come stanno cambiando la lotta e il rapporto col dolore nel nostro tempo.
Il tema era: “Verso una società senza dolore?”. A trattarlo un cast di nomi di riconosciuta autorevolezza, provenienti da diversi mondi, dal filosofo Remo Bodei al teologo Sergio Quinzio, al sessuologo Willy Pasini. Era il 14 marzo del 1991 quando in Castelgrande, a Bellinzona, tra i qualificati e qualificanti relatori giunse David Maria Turoldo, molto atteso perché portava già dentro sé e sul volto i segni dell’attacco che stava sferrandogli “il Drago, insediato nel centro del ventre come un re sul suo trono”. Quest’immagine è poi diventata una icona della sua battaglia contro il male.
L’interrogativo dominante era a sapere cos’avrebbe detto il religioso friulano, intellettuale, poeta e scrittore, figura profetica, spesso incompreso quando non osteggiato dallo stesso fuoco amico, nella Chiesa. E quale sarebbe stato il tono provocatorio e controcorrente, che era nel DNA del frate friulano, lo si capì ben presto dal suo intervento, davanti a un “parterre” di ospiti che ascoltò in silenzio la confessione, quasi un testamento, dell’odiosamato rapporto con la sofferenza. Era un meeting medico ma le prospettive erano più lunghe e con volute ricadute pratiche sull’umanità in viaggio nell’arcipelago dei camici bianchi nelle corsie d’ospedale.
E c’era molta, comprensibile attesa per quello che Turoldo avrebbe detto. Giunse con qualche minuto di ritardo e questo mise in allarme, soprattutto in riferimento alle già precarie condizioni di salute del relatore.
Michele Fazioli, che lo aspettava per un’intervista di riflessione proiettata sull’ormai imminente Pasqua, rivelò la sua impressione, quando lo vide arrivare, accompagnato da due suorine: “Un corvo maestoso, dal volo un po’ misterioso, che plana dentro la placida chiacchiera del convegno…
Quel cappello nero, quel nasone adunco, quella falcata sicura furono come l’irrompere dell’esperienza vera della sofferenza”. Fu un canto al dolore con approdo nel porto della speranza, tra poesia e prosa, sensibilità delicate e concretezza di coraggioso lottatore.
Il bisogno di sentirsi tra amici, nella speranza
Coerente con il suo temperamento e il suo percorso, Turoldo confidò subito nel suo saluto il bisogno di “sentirsi tra amici, in un clima familiare, nella speranza che quanto tenterò di dire verrà accolto in termini confidenziali” e chiarì di non avere la presunzione di risolvere problemi “così grandi come quello del dolore, della sofferenza e della morte”.
Senza perifrasi, partì all’attacco: “Dovessimo eliminare il dolore, quindi la sofferenza, e non so se questo comporta anche l’eliminazione della morte, tutto perderebbe di valore. La morte non è altro che la somma finale, esplosiva, del dolore e della sofferenza, perché è il distacco violento dalla vita”. Si arriverebbe a un disastro e raccontò della sua esperienza personale: “Figlio di una famiglia forse tra le più povere del Friuli, ho visto sempre davanti a me mia madre lottare contro la miseria, vivere gomito a gomito con la sofferenza e con la morte che erano di casa. Dolore a non finire con fratelli emigranti, in miniera e uno di questi ha visto nove figli morti. Ma ho imparato che la mia più grande ricchezza è stata questa convivenza con povertà e sofferenza”. Con anticipo di 31 anni parlò del passaggio a “una morte collettiva” spiegando che “non abbiamo mai avuto una vera civiltà di morte, anche se abbiamo strumenti raffinatissimi per combatterla. E più creiamo elementi per combatterla, più essa si moltiplica”. Siamo immersi nel consumismo, non abbiamo mai avuto “tanti divertimenti e stordimenti e mai abbiamo avuto tanta disperazione come oggi”.
“Sarebbe un mondo senza pietà”
Senza dolore non ci sarebbe valore nelle cose, di più, “non ci sarebbe lo strumento primo per giudicare il valore delle cose e non ci sarebbe nemmeno più lo strumento per cogliere il sapore delle cose”. Il rischio drammatico sarebbe l’assenza di sensibilità verso l’altro”, ritrovandoci tra individualisti, arroganti, prepotenti e superuomini, dei quali c’è un vasto campionario in visibilità diffusa. Ed esemplificò, citando Silone: “Una libertà senza costo, regalata, non può essere apprezzata”, aggiungendo di suo che “una libertà si conquista” perché se regalata, non ne conosciamo il valore. Allo stesso modo, “la rivelazione dell’amore è data dal sacrificio che vi è necessariamente connesso. Un amore che non costa non ha nessun valore.
Comincia ad essere amore quel giorno che tu paghi, che tu soffri”.
In questi trent’anni il dolore è diventato altro rispetto al tempo di Turoldo. Siccome il dolore è sempre incombente, con il neoliberismo in atto ci avviamo verso quella che è stata chiamata un’anestesia della realtà.
Senza dolore però, ammoniva Turoldo, non ci sarebbero attenzione e comprensione per gli altri che fanno fatica e arrancano sulle salite della vita, mancherebbe anche la solidarietà. “Certo, il dolore è apparentemente disumano. Però, se io non avessi avuto dei dolori insopportabili, adesso non sarei qui a parlare. Il dolore è come una campana che suona, per dirci che lì qualcosa non funziona”. Di più: “C’è un aspetto positivo anche nella morte, senza la quale non ci sarebbe pietà. Sarebbe un mondo spietato. Con questo non sono certo qui a fare il masochista o l’arrabbiato. Io ho voluto che tutto mi si dicesse, perché sono del parere che l’ammalato deve sapere”. E dopo la diagnosi, ci si deve “mettere in orbita… In questo slancio finale, non cedere, mio cuore, alle sovrane stanchezze”, con tutti i significati che si aprono per ciascuno nella lotta al dolore, in nome della vita, che Turoldo ha celebrato fino all’ultimo. E lo fece anche davanti all’uditorio di Bellinzona, poi nell’intervista televisiva con Fazioli sulla luce della Pasqua dopo l’oscurità del Venerdì Santo, testimoniando inesausto la forza decisiva della speranza.