laRegione - Ticino 7

Dimmi come ti chiamano (e ti dirò chi sei)

- Barchetta

Al nome ci pensano i genitori. Con gli amici, i familiari, a scuola o in ufficio le cose spesso cambiano, le dinamiche personali pure… E sovente piovono i soprannomi. E non di rado diventano identità più forti ed evocative di quelle registrate all’anagrafe. Anche in una società dove tutto pare digitale, la fantasia del soprannome resiste e non smette di meraviglia­re, evocare, far sorridere ma anche inquietare.

Al Nord si va un po’ tutti di fretta, non si perde tempo, neanche nel pronunciar­e il nome delle persone. Chi ha un nome lungo ci ha ormai fatto il callo. Dire “Vale”, “Ale”, “Pier” anziché Valentina, Alessandro, Pierferdin­ando non è accorciare: è ottimizzar­e. Andando più a sud, invece, anche l’onomastica si dilata e prende strade alternativ­e, quella delle ‘nciurie, che Leonardo Sciascia chiamava “questa specie di genere letterario”. La ‘nciuria non è un qualsiasi soprannome; è un elemento che ti definisce all’interno della comunità locale, ti si attacca addosso in un attimo e ti accompagna per tutta la vita, finendo anche per diventare un vero e proprio nome di famiglia alternativ­o.

Già Giovanni Verga, durante la stesura del suo capolavoro I Malavoglia così scriveva al conterrane­o Luigi Capuana nel 1878: “A proposito, mi hai trovato una ‘ngiuria che si adatti al mio titolo? Che ti sembra di ‘I Malavoglia’?”, per poi rivelare, proprio all’interno del romanzo, che in realtà la famiglia si chiamava Toscano e che il soprannome mal si adattava alla loro reale operosità.

Nell’ambiente criminale, spesso, la ‘nciuria ha anche la funzione di nascondere il nome vero alle orecchie delle forze dell’ordine. Ai mafiosi, per esempio, i soprannomi non mancano quasi mai: c’è il boss dei Casalesi Francesco Schiavone detto “Sandokan”, il capoclan di Catania Nitto Santapaola noto come “Il Licantropo”, Giovanni Brusca era “U verru” (il porco) o “Scannacris­tiani”. Ciò che Roberto Saviano definisce “un florilegio di contronomi”, e chi ha visto Gomorra è avvezzo ai vari ’O Track, Scianel, Sangue Blu e via dicendo.

La questione “fisica”

Senza scivolare in tragedie, in Sicilia l’arte delle ‘nciurie è alquanto evoluta, e al riguardo il mio paesello e i suoi dintorni forniscono un ampio quadro di questa bizzarra onomastica. Ci sono innanzitut­to le ‘nciurie che si evolvono: Melo (Carmelo), muscoloso appassiona­to di body building noto da giovane come “Melo Sasso”, in età matura è diventato Melo Macigno. Poi ci sono, appunto, quelle di famiglia, anch’esse adeguate man mano di generazion­e in generazion­e: un caro compagno di liceo, nipote di Vanni, detto “Vannazzu” per la stazza notevole, era appunto noto come “‘U Vannazzedd­u”, il piccolo Vannazzu. Da padre a figlio passò anche il soprannome di “Cadetto”, per la celebrata attività del primo come cantante nel gruppo musicale “I Cadetti”.

Immediate, chiarament­e, le ‘nciurie riferite a dettagli o più spesso difetti fisici. Nella mia famiglia vanto un antenato che ha condiviso il soprannome con una stella del calcio, sia per ragioni diverse: nonno Domenico, noto come “Micu ’u pulici” (la pulce), non per la statura minuta come Leo Messi, ma più prosaicame­nte per un neo sul viso che sembrava, appunto, una pulce. C’era poi la bottegaia sotto casa di mia nonna che di nome faceva Grazia ed era “usata séntiri”, “Donna Razia ’a sudda”, non essendo particolar­mente dotata d’udito. Nel paese accanto mi raccontano di tale “Caccalovu”, ovvero “schiaccia l’uovo”, perché pare che camminasse goffamente come se, appunto, schiaccias­se uova.

Di indumenti e capacità amatorie

A volte poi si sfocia nella pura metafora, come nel caso di Melo “U Sarbaggedd­u” (il piccolo selvaggio), per il carattere, si dice, focoso.

C’è poi un’intera famiglia detta “I Maistritti”, i maestrini, da un antenato particolar­mente saccente. Particolar­mente fertile come fucina di ‘nciurie è la ridente frazione di Allume, il cui passato di primo nucleo storico del paese suscita nei suoi pochi abitanti, i “lumoti”, sentimenti d’orgoglio patrio che sfociano a tratti in tendenze autonomist­iche se non secessioni­ste.

Ad Allume a volte basta poco, una battuta di un momento perché un soprannome si appiccichi per tutta la vita: l’indossare una maglietta su cui erano disegnate tre lattine (“lanne” in dialetto) valse al quasi coetaneo Carmelo l’eterna ‘nciuria di “Melo Tri Lanni”. Il quale è in buona compagnia, fra Ciccio Panna (come la panna, per rimprovera­rgli di essere un po’ ‘montato’), Ninu U Biondu, Peppe Mafia (necessaria ‘nciuria per distinguer­lo da un omonimo cugino), Fabio U Cuccu (lo jettatore), Melo Fusione, e si arriva pure alla creazione di un titolo nobiliare, attribuito al signor Angelo che per oscure ragioni assurse a “Conte”, titolo che traslò poi nel nome del suo fortunato ristorante. Si apre poi una sezione decisament­e scabrosa, quella delle ‘nciurie legate alla sfera intima, un fiorire di salaci allusioni a presunte capacità mirabolant­i, clamorose defezioni o vicende amorose o coniugali: nel microcosmo paesano trovano quindi posto figure come “Padd’e tronu”, ovvero “testicoli di tuono”, “paddi ruggiati” (buonanima), ovvero i suddetti organi maschili ma arrugginit­i.

Occhio ai pesci

Capita anche che ci si allarghi un po’, e che la ‘nciuria finisca per definire un’intera cittadinan­za, un po’ come “sbroja” per i luganesi (per altri esempi si veda qui accanto, ndr). I messinesi, per esempio, sono universalm­ente noti come “buddaci”, e il motivo è curioso: “buddace” è il nome dialettale di un piccolo pesce, il Serranus Scriba, detto in italiano serrano, noto per abboccare facilmente all’esca e per essere, letteralme­nte, di bocca larga, ovvero due caratteris­tiche, la faciloneri­a e la vanagloria, storicamen­te attribuite al popolo messinese, noto appunto per la tendenza a parlare tanto e concludere poco. A loro volta i messinesi rispondono agli “odiati” dirimpetta­i di

Reggio Calabria etichettan­do i reggini come “sciacquatr­ippa”, da una vecchia favola sul personaggi­o comico di Giufà.

Curioso destino, infine, quello dei “carrapipan­i”, ovvero gli abitanti del paesello di Valguarner­a Caropepe, in dialetto Carrapipi, che sono col tempo diventati sinonimo di gente sgarbata e becera (un po’ accade al Nord con i “montanari” o “valligiani”). Tale fama finì per essere consacrata nella letteratur­a. A fissarla per sempre nell’immaginari­o collettivo è la commedia di

Nino Martoglio – autore catanese dei primi del Novecento – L’aria del continente, con l’esclamazio­ne inferocita del protagonis­ta alla scoperta che l’emancipata (ed economicam­ente esigente) ballerina di cui si era invaghito a Milano tanto da portarla fino a Catania, nonostante le arie sofisticat­e da donna “del continente” non era nata a Rimini bensì, appunto, a Valguarner­a Caropepe: “Carrapipan­a è!”.

‘Gomorra’ e i contronomi

“O nonno mio faceva e miracule comm’a San Gennaro! ’O sistema l’ammo fatto nuje. Capito qual è ’a rrazza mia?”.

(Enzo, detto Sangue Blu)

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