Élisa Shua Dusapin
Nata da padre francese e madre sudcoreana, cresciuta a cavallo tra Parigi, Seul e Porrentruy, la pluripremiata scrittrice svizzera esplora nei suoi romanzi la mescolanza delle culture, il tema dell’identità e la difficoltà di comunicare.
Trent’anni il prossimo ottobre, Élisa ha vissuto sulla sua pelle quanto sia difficile mescolare culture diverse, fare i conti con la propria identità quando si vive in terra straniera e quanto sia complicato comunicare, anche tra familiari, nel momento in cui si appartiene a mondi differenti. Nel suo più recente lavoro tradotto in italiano, Le biglie del Pachinko (Ibis Edizioni – Finis Terrae, 2021), per esempio, la ventinovenne Claire, cresciuta in Francia, sta passando l’estate coi nonni a Tokyo. I due anziani gestiscono un salone di Pachinko – un gioco d’azzardo a metà strada tra la slot machine e il flipper – da quando decenni prima sono fuggiti dalla natia Corea. Claire spera di riportarli nel Paese natale, che i due non hanno più rivisto dopo la fuga. Mentre i giorni delle vacanze passano e il tempo trascorre tra noia e lezioni di francese alla piccola Mieko, la giovane donna fatica a entrare in relazione con i nonni… anzi non riesce neanche più a ricordare la loro lingua. Come potrà trovare la sintonia giusta per convincerli a intraprendere un viaggio che da soli non hanno mai voluto fare?
Comunicare tra mondi lontani
Anche in Le biglie di Pachinko Dusapin eccelle nel descrivere l’ambiguità delle relazioni familiari, le sottili incomprensioni che vanno di pari passo con un profondo attaccamento. Ed emerge il tema della difficoltà di relazionarsi tra persone che, pur appartenendo alla stessa famiglia, non hanno gli stessi parametri culturali. Ma in che modo è possibile trovare una vera comunicazione quando si appartiene a mondi lontani? Lo chiediamo direttamente a Élisa Shua Dusapin che ci ha risposto grazie alla cortese “mediazione linguistica” della scrittrice, poetessa e traduttrice Anna Ruchat: “Proprio questa è la domanda che c’è a monte del romanzo e non trova risposte definitive. Mi sembra che i miei personaggi possano davvero comunicare solo quando riescono a incontrarsi a livello emotivo, quando la condivisione di un’esperienza di vita fa entrare l’altra persona in risonanza con qualcosa di intimo, che le permette di capire meglio chi gli sta di fronte al di là delle differenze culturali e delle competenze linguistiche. Quando le persone fanno conversazioni intellettuali e razionali, finiscono per incappare nelle barriere dovute a queste differenze, e le loro storie e le loro ferite impediscono di aprirsi agli altri”.
Avere radici familiari così ramificate come è successo a lei significa poter attingere a più risorse oppure portare il peso di più culture sovrapposte?
“Per molto tempo, ho considerato le mie origini come un handicap; le differenze culturali erano un problema in famiglia e sono cresciuta in un piccolo villaggio svizzero dove eravamo gli unici stranieri. Ho sofferto di razzismo a scuola al punto da dover cambiare istituto. Ma crescendo, mi sono resa conto di quanto io sia fortunata a provenire da culture diverse. Questo mi permette di allargare il mio punto di vista, la mia comprensione degli altri e del mondo, in una certa misura. Ho cominciato a scrivere quando avevo diciassette anni e la scrittura è stata una via per esplorare questi problemi. Vi ho trovato dell’ossigeno”.
Quanto conta la lingua, potersi esprimere nello stesso idioma quando si vuole costruire una relazione
anche tra persone di cultura diversa?
“Mi sembra che i miei personaggi dimostrino che la condivisione di una lingua non porta necessariamente a una migliore comunicazione, né se si appartiene alla stessa famiglia o alla stessa cultura né se si è perfetti sconosciuti. Infatti, ogni parola è investita da una storia - personale, familiare, culturale - che è diversa da una persona all’altra, e la capacità di capirsi tra due persone dipende, a mio parere, più dall’apertura, dall’empatia, dall’intelligenza emotiva, dalla conoscenza acquisita attraverso l’esperienza che non dalla teoria. Il problema deriva dal fatto che, in generale, crediamo che tutto dipenda dalla padronanza della lingua”.
Che valore ha per lei tornare ai luoghi d’origine e quali sono i suoi luoghi d’origine?
“Ho viaggiato molto tra l’Asia, l’Europa e gli Stati Uniti, dove vive la mia famiglia, da quando avevo tredici anni. Era quasi un bisogno fisico, volevo cercare di trovare me stessa da qualche parte. Oggi non sento più questa necessità, perché mi sembra che la scrittura sia diventata il mio territorio intimo, quello in cui mi riconosco, indipendentemente da un luogo geografico, da una cultura”.
In cosa lei si sente francese e in cosa sudcoreana? Oppure non si sente parte di nessuna di queste culture?
“Sento di appartenere a un miscuglio di culture: quella francese, quella svizzera romanda, quella tedesca e quella asiatica in senso ampio. È impossibile per me descrivere con precisione in che direzione la mia identità stia cambiando e come questa rifletta la società, anch’essa in continuo cambiamento. In effetti, non saprei nemmeno definire l’identità in generale. E in fondo questa questione oggi non mi interessa più veramente”.
Lei oggi vive in Svizzera. Cosa ama di questo Paese e in cosa sente sua la cultura elvetica?
“A volte mi sento svizzera nel senso che la Confederazione ha diverse lingue nazionali, è situata tra diversi grandi Paesi europei, nei confronti dei quali deve spesso difendersi per una forma di egemonia culturale. È un Paese di frontiere, di lingue e di culture che si mescolano facendo in qualche modo eco alla mia storia. Credo che il fatto di crescere a metà tra le lingue e le culture favorisca la capacità di osservazione e una forma di umiltà in cui mi riconosco”.