Il Kafi Luz
Fra gli arcani riti di passaggio tra infanzia e adolescenza di un Ticino ancora prevalentemente rurale, c’erano le bevande alcoliche. E il “Kafi Luz”, almeno nella mia cerchia di amici, era considerato una sorta di esame di laurea. Anche perché, per berlo, dovevi attraversare il Gottardo oppure il San Bernardino: cosa non scontata allora.
Quella laurea l’ho conseguita in un affollato ristorante sulle piste di sci a Savognin, più o meno venticinque chili fa. Anche se devo ammettere di non essere assolutamente certo di aver bevuto per davvero un Kafi Luz. Intanto perché si tratta di una bevanda tipicamente lucernese e poi perché non sono in grado di dire quale acquavite contenesse.
E sì, ci sono delle regole ben precise da rispettare nella preparazione del caffè alla lucernese. Intanto perché la leggenda narra che il vero e unico Kafi Luz può essere gustato solo all’alba del mercoledì che mette fine al carnevale: quando lo si trangugia alla ricerca dell’ultima scossa prima di togliersi la maschera.
Secondo la Luzerner Zeitung poi, per capire se la bevanda è preparata correttamente, è indispensabile un esame visivo; nel senso che attraverso un bicchiere di Kafi Luz (che alcuni chiamano anche Kafi Träsch), si devono poter leggere distintamente i semi sulle carte dello Jass. Insomma: la bevanda deve essere trasparente e non deve contenere caffè; o quasi. Sì, perché la ricetta dice che lo si prepara con acqua calda, un pizzico di polvere di caffè (lo stretto necessario per giustificarne il nome), tre cucchiaini di zucchero e un cicchetto, abbondante, di Träsch (l’acquavite di mele e pere, tipica della Svizzera centrale).
Ecco perché non sono certo di aver bevuto un “Kafi Luz”: non sono assolutamente in grado di dire se in quel bicchiere fosse di Träsch per davvero. Sono però assolutamente certo che in quel bicchiere l’acquavite non mancasse…