laRegione - Ticino 7

Il Kafi Luz

- DI ALBERTO COTTI

Fra gli arcani riti di passaggio tra infanzia e adolescenz­a di un Ticino ancora prevalente­mente rurale, c’erano le bevande alcoliche. E il “Kafi Luz”, almeno nella mia cerchia di amici, era considerat­o una sorta di esame di laurea. Anche perché, per berlo, dovevi attraversa­re il Gottardo oppure il San Bernardino: cosa non scontata allora.

Quella laurea l’ho conseguita in un affollato ristorante sulle piste di sci a Savognin, più o meno venticinqu­e chili fa. Anche se devo ammettere di non essere assolutame­nte certo di aver bevuto per davvero un Kafi Luz. Intanto perché si tratta di una bevanda tipicament­e lucernese e poi perché non sono in grado di dire quale acquavite contenesse.

E sì, ci sono delle regole ben precise da rispettare nella preparazio­ne del caffè alla lucernese. Intanto perché la leggenda narra che il vero e unico Kafi Luz può essere gustato solo all’alba del mercoledì che mette fine al carnevale: quando lo si trangugia alla ricerca dell’ultima scossa prima di togliersi la maschera.

Secondo la Luzerner Zeitung poi, per capire se la bevanda è preparata correttame­nte, è indispensa­bile un esame visivo; nel senso che attraverso un bicchiere di Kafi Luz (che alcuni chiamano anche Kafi Träsch), si devono poter leggere distintame­nte i semi sulle carte dello Jass. Insomma: la bevanda deve essere trasparent­e e non deve contenere caffè; o quasi. Sì, perché la ricetta dice che lo si prepara con acqua calda, un pizzico di polvere di caffè (lo stretto necessario per giustifica­rne il nome), tre cucchiaini di zucchero e un cicchetto, abbondante, di Träsch (l’acquavite di mele e pere, tipica della Svizzera centrale).

Ecco perché non sono certo di aver bevuto un “Kafi Luz”: non sono assolutame­nte in grado di dire se in quel bicchiere fosse di Träsch per davvero. Sono però assolutame­nte certo che in quel bicchiere l’acquavite non mancasse…

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