“Titolare”: che vuol dire? I gerghi come un crogiolo linguistico
Viviamo di metafore: anche nel nostro esprimerci quotidiano. Lo facevano anche i gerganti. Qui segnaliamo il loro far metafore partendo dalla loro abilità tecnica. Fanno il passaggio semantico da ‘aver esperienza, essere abile nelle misture e leghe metalliche’ al significato generale di ‘capire, comprendere come vanno le cose del mondo’. Così i magnani valtellinesi facevano vanto della loro perizia nel ‘fare la giusta proporzione di metalli in vista di una lega metallica che durasse’. Ne trassero una metafora importante: quella del ‘capire il gergo’, che era capacità indispensabile per potersi sentire integrato ‘nel gruppo dei nostri’.
A lungo ci ha intrigato il valtellinese e grigionese titolar, capire il gergo. Giungiamo infine a poter stabilire una lettura del tipo: ‘saper fare la proporzione dei metalli in una lega’ > ‘capire il gergo’.
È un traslato esperienziale. Nel verbo titolar echeggia il “saper fare il titolo”, dove titolo recava l’accezione tecnica di ‘rapporto che sussiste tra il peso del metallo puro contenuto in una moneta e il peso complessivo della moneta stessa’. Il ‘capire’ indicato quale ‘saper valutare, saper soppesare le cose, quasi un conoscere le proporzioni utili’.
Era vanto dei magnani di saper manipolare i metalli e farne delle leghe utili a stagnare ora una pentola bucata ora una del tutto nuova.
A rafforzare questa nostra nuova lettura giunge l’impeltrà con cui i gerganti di Bergamo designavano il fatto di capire, di comprendere il loro gergo: era, letteralmente, l’impeltrare, il mettere il peltro’, ‘avere la perizia di saperlo manipolare in modo adeguato’.
La nuova lettura non è né peregrina né isolata. Gli stessi parlanti dicevano anche impiombà, sempre nel senso di capire, intendere, udire (e, poi, anche ‘vedere’). L’invito è di rileggersi il bellissimo, pionieristico Vocabolario bergamasco di Antonio Tiraboschi, Bergamo, ed. Bolis 1873, Appendice, p. 23l. Vi cogliamo un’immagine desunta dal manipolare i metalli, nel caso specifico il piombo, non a caso designato nel gergo di Val Malenco come el mastru, il maestro, il metallo più importante (inchiesta personale del 5.4.1987). Il capire veniva designato quale ‘impiombare’ , valenza semantica che poi, nelle concrete circostanze del parlare, era estesa per analogia anche al ‘vedere’: va, rama öna lömusa per implombaga, va, porta con te un lume per vederci: letteralmente ‘per capirci qualcosa’.
Fucina singolare
Un fascinoso laboratorio linguistico: questa l’impressione che nasce in chi percorre gli usi dei gerganti, ossia di coloro che inventano e praticano il gergo. Esso non è un settore inalveato in sé stesso, bensì è dimensione capace di avanzare al linguista anche indicazioni di natura generale. Il gergo ci si para dinnanzi come una fucina singolare, in cui si fonde, armeggia e manipola, si rifà e si riconia in un continuo sperimentare con le leghe. I gerganti interessano anche per il loro mostrare la lingua in fieri, per il loro lasciarci intravvedere le parole nel loro germinare: una dinamica linguistica in statu nascendi. Nella lingua, che di regola è tràdita, gli esiti li conosciamo post festum, a cose fatte. Proprio per il suo essere un crogiolo più piccolo, il gergo ci dischiude invece parecchi spiragli: sbirciamo nei fornelli di una vigorosa “alchimia” che è invenzione e nel contempo divertimento.
Si è tentati di dire che, in certa misura, il gergo è inventato per se stesso, con compiacimento: a momenti nasce come fiore d’invenzione, come arguta lettura del reale da propinare ai propri compagni di emarginazione per “incuriosirli”: il pane come ‘preghiera’, il re come ‘succhiapersone’ (capace solo di chiedere imposte), il governo come ‘imbroglione che batte moneta di latta’ , il mondo come ‘vicolo stretto’ dove non hai quasi agio di muoverti. In altra prospettiva il mondo è visto come ‘farfalla’. Se ne sottolinea l’inconsistenza, la labilità: è il mondo come parpài sulla bocca dei magnani di val Colla, che risemantizzano:infatti il loro dialetto chiama ul parpai la farfalla (lat. papilio).
Naturalmente, nel loro “fare gergo” incidono anche altre componenti. È inutile stare a insistere sull’ironia, talora sul sarcasmo e su certo “ribellismo”. Fermiamoci piuttosto su contatti inattesi dal povero linguista, come quelli con il libro della cabala.
Gh’è ciapaa dent l cinq annunciavano allarmati i boscaioli lombardi quando le fiamme iniziavano ad aggredire il bosco. Come spiegare questo grido preoccupato?
L’eco della cabala
Abbiamo cercato a lungo. Infine, il cinque come ‘fuoco’ lo colleghiamo alla cabala. Nel passato e anche oggi (in comunità meridionali) cabala e mondo subalterno hanno contatti stretti.
Per questo per molti artigiani ambulanti e boscaioli dell’Ottocento e primo Novecento cinque equivale a ‘fuoco’.
Tra boscaioli valtellinesi abbiamo colto spesso (al volo) annunci come: l’a ciapaa dent ol scinco!, attenti, il bosco brucia! (Val Malenco, sopra Sondrio, inchiesta del 2024). Ancora: a Brione Verzasca scinq, fuoco, da cui si fabbricava il verbo scingàss, bruciarsi: letteralmente, il ‘cinquarsi, il prendere il cinque’ (dicembre 2021). Anche tra romani di Trastevere (inchiesta dell’ott. 1982) appiccare il cinque è dar fuoco a un cumulo di paglia o, addirittura, per vendetta, a una cascina. Idem in Emilia e nei dintorni di Lucca. Largo, insomma, l’eco della cabala, di quel libro della smorfia che serviva e serve a scegliere i numeri da giocare al lotto: chi sogna il fuoco deve puntare sul cinque.
Vanno registrate e osservate anche altre battute che correvano fino all’altro ieri tra gerganti (ambulanti, laveggiai, magnani, spazzacamini). Un esempio? Il passaggio semantico da ‘becco’ a ‘mezzogiorno’. Nemm, l’è becch, andiamo, è mezzogiorno, si dicevano l’uno l’altro gli spazzacamini verzaschesi (Lavertezzo 1975, Vogorno 1980, Frasco 2021). Lo spunto si ricostruisce pensando al contadino che privo di orologio riconosceva giunto il momento di andare a mangiare un boccone, dai crampi, dal becco allo stomaco provocati dalla fame. ‘Mezzogiorno’ insomma non come l’immagine dei dodici rintocchi, bensì come un momento più intenso, che vivi su te stesso, quando senti il becco della fame.
Insomma, intrigano numerose invenzioni gergali: da tempo attendono un esame rinnovato. Per dei giovani studiosi volonterosi e intelligenti si prospetta un lavoro bellissimo. Il fatto è che, le loro parole, i gerganti le caricano sempre di colore, di partecipazione, magari anche sprezzando. Fanno sovente dell’ironia. Un esempio? Quell lì l’è l ciurlo, quello è il prete e anche un uomo da poco; poi anche vinello, vino da poco; infine: caffè lungo, senza sapore.
Il motto si radica in tanti riscontri, che da Palermo vanno fino a Firenze per poi estendersi al Piemonte e alle comunità lombarde. Già nel 1600 a Roma chiamano ciurlo l’ubriaco (Peresio). E i marginali di Roma a tener viva la parola fino ad oggi (2023): è ciurlo, è avvinazzato, da ciurlare, oscillare, barcollare per il troppo vino ingurgitato.
Il tutto dal radicale ciurl- ‘girare, oscillare, barcollare’ esplicatosi tra l’altro nel cinquecentesco fare il ciurlo che designava il giro di danza ballato su un piede solo; cfr. oggi ciurlare nel manico, tentennare, vacillare, essere incerto, attestata dai vocabolari dal 1850 (ma certo anteriore). Per non pochi abruzzesi poi (2015, 2023) la ciurlina è la donna volubile, la fraschetta.
Alcuni colleghi della Crusca vorrebbero stabilire un contatto tra ciurlo, caffè, e ciurlo, zurlo, prete: ciò rifacendosi al presunto comun denominatore del color nero. Ma si pecca di anacronismo, applicando la costanza del color nero al prete del Quattrocento, quando questi non portava ancora quella tonaca nera che viene imposta dal Concilio di Trento. Prima il nero non era per nulla stabilmente connesso al prete, che vestiva abiti colorati, variopinti; la gerarchia li riteneva disdicevoli.
ciurlo, caffè, ciurlo, zurlo, prete
Un fascinoso laboratorio linguistico
Ancora una nota per dire del canéta: a lungo marginali e gerganti “vedono” il prete come un pigro, intento solo a vendere parole e preghiere. Costante, in molti gerghi, la negativizzazione del prete; gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma qui, in un cenno che vuol essere rapido, basti menzionare (udito nel 1978, 1983 e 2005) il verzaschese el canéta, il prete, letteralmente il lazzarone, quello che non lavora per paura di rompersi la cannetta di vetro che ha nella schiena. Ne vennero anche cognomi valtellinesi quali Canetta.
Un fascinoso laboratorio linguistico: questa l’impressione che nasce in chi percorre gli usi dei gerganti, di coloro cioè che inventano e possiedono il gergo. Proprio per il suo essere un crogiolo più piccolo della lingua, il gergo ci dischiude parecchi spiragli: riusciamo a sbirciare nei fornelli di una vigorosa “alchimia” che è invenzione e anche divertimento e che a momenti si fa “enigmistica” per sfidare i compagni con cui stai rifugiato, la sera e la notte, magari in un cascinale diroccato.