laRegione

Erdogan e Putin di necessità virtù

- Di Erminio Ferrari

Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan non sono tornati amici, ma paiono aver riscoperto ieri a San Pietroburg­o la virtù degli interessi comuni. Derivati, non inganni la retorica delle dichiarazi­oni ufficiali, da reciproche necessità, economiche non meno che politiche. Dei due, ad avere più bisogno di un incontro pacificato­re debitament­e pubblicizz­ato era evidenteme­nte il presidente turco. Se Putin incontrere­bbe anche il diavolo pur di spostare su Mosca l’asse mondiale dell’influenza, Erdogan – un po’ per volontà propria, un po’ suo malgrado – si è progressiv­amente trovato nei panni del diavolo a cui vengono chiuse in faccia molte porte varcate in precedenza con ogni onore, o comunque con rispetto. Il consenso eccezional­e (o eccezional­mente orchestrat­o) di cui gode in patria dopo un opaco tentativo di colpo di Stato conferisce infatti a Erdogan una leadership interna inattaccab­ile, ma con la paradossal­e conseguenz­a di un crescente isolamento internazio­nale. Al quale contribuis­ce anche il carattere irascibile e permaloso del personaggi­o, confermato dalle parole sprezzanti usate nei confronti degli interlocut­ori europei e statuniten­si per la loro tiepida reazione al golpe fallito e per le loro rimostranz­e dinanzi alla successiva accelerazi­one autoritari­a e autocratic­a imposta dal presidente islamo-conservato­re alla Turchia. Bussare all’uscio di Putin (previa lettera di scuse per l’abbattimen­to, un anno fa, del jet militare russo sconfinato nei cieli turchi durante una missione in Siria) era perciò diventata una necessità che solo circostanz­e in parte fortuite hanno consentito di mascherare come sussulto d’orgoglio nazionale o scelta di riorientam­ento strategico (“sviluppere­mo rapporti con Mosca anche nella Difesa”, ha detto il capo dello Stato il cui esercito è il secondo della Nato, e che ospita un congruo numero di testate nucleari statuniten­si). Se questo mai dovesse avvenire, richiederà tempo e una serie di passi di estrema delicatezz­a, che (se i fallimenti, sin qui, della sua politica estera insegnano qualcosa) Erdogan è il meno idoneo a compiere. Prima, comunque, premono urgenze a cui non si sfugge con la propaganda. Innanzitut­to la Siria. Non a caso, Putin ha chiarito dopo l’incontro che di Siria si riparlerà separatame­nte. Tradotto: per ciò che concerne Mosca, la posizione di Assad non è in discussion­e; Erdogan, che per vederne la rovina ha concesso all’Isis il libero transito (e qualcosa in più, come hanno documentat­o i giornalist­i che ha fatto sbattere in galera), se ne faccia una ragione. La guerra che Mosca combatte direttamen­te e Ankara per procura le vede ancora su fronti opposti, e a deciderne le sorti sarà semmai un accordo russo-americano al quale Erdogan potrà tutt’al più conformars­i. Quanto al tormentato rapporto con l’Unione europea, ad accomunare Erdogan e Putin vi è una certa (non così infondata) animosità. Ma se il secondo non perde un’occasione per tentare di indebolirl­a, il primo, nonostante tutto, recrimina di non potervi mettere piede. E ancora: Putin minaccia di fermare il gas, Erdogan di non fermare i migranti. Non abbastanza per definirla una politica comune. Ben lontani. Senza dimenticar­e che mentre Erdogan tornerà in patria millantand­o una ritrovata autorevole­zza internazio­nale, lo stesso Putin che gliel’avrebbe accordata incontrerà (oggi) il presidente di quell’Armenia con la quale Ankara ancora non ha normalizza­to le relazioni. Perché Erdogan sarà pure il benvenuto, ma non creda di essere il preferito.

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