Bruce Springsteen secondo Portelli
‘The River’, l’album e il tour 36 anni dopo: Bruce Springsteen secondo Alessandro Portelli
Da ‘The River’ (1980) al ‘The River Tour’ (2016). Incursione nel canone springsteeniano con l’autore di ‘Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni’.
La parte europea del ‘The River Tour’ di Bruce Springsteen e la sua E Street Band si è chiusa dieci giorni fa al Letzigrund di Zurigo con il solito, travolgente concerto di tre ore e mezza filate. Del cantante di Freehold, New Jersey, abbiamo parlato con Alessandro Portelli, fan di lunga data e autore di un’erudita quanto appassionata analisi dei temi del canone springsteeniano.
“Is a dream a lie if it don’t come true or is it something worse / That sends me down to the river, though I know the river is dry” (Un sogno è una menzogna se non si avvera, o è qualcosa di peggio / Che mi manda giù al fiume, anche se so che il fiume è asciutto). C’è un sogno che va a sbattere e che svanisce, in ‘The River’ (1980), una delle canzoni più note di Bruce Springsteen. Perché “il mio lavoro – così disse il cantante di Freehold, New Jersey, al suo biografo David Marsh nel 1987 – è sempre stato quello di misurare la distanza fra la realtà americana e il sogno americano”. Springsteen, l’America, il lavoro, i sogni: fanno il titolo di un bellissimo libro di Alessandro Portelli, ‘Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni’ (Donzelli, 2015). Fu proprio comprando il doppio album ‘The River’ alla Coop di Harvard Square, a Cambridge (Massachusetts), 34 anni fa, che l’allora quarantenne professore di letteratura americana – dopo una lunga frequentazione, da ascoltatore e da studioso, della musica popolare americana (Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan) e della musica country – s’imbatté in Springsteen riscoprendo, grazie a lui e alla sua band, il “potere del rock and roll”. Vennero poi altri album, e altre scoperte: l’incontro di Springsteen con Woody Guthrie (‘This Land Is Your Land’, nel disco quintuplo ‘Bruce Springsteen & the E Street Band Live/1975-1985’, del 1985), “una quadratura del cerchio, che riportava a casa tutto quello che avevo ascoltato fino allora, sia il rock and roll sia la musica popolare e di protesta, e le collocava in una storia condivisa”; e quello di Springsteen con Pete Seeger (celebrato in ‘We Shall Overcome: The Seeger Sessions’, del 2006): “Ebbi l’impressione di non avere del tutto sbagliato vita”, scrive il professore all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, infaticabile e originale esploratore della cultura popolare statunitense.
Alessandro Portelli, cominciamo dalla fine: lei era al Circo Massimo il 16 luglio?
Sì.
Ha visto qualcosa di nuovo a quel concerto?
Non lo so... Ho visto un Bruce Springsteen sempre uguale e sempre nuovo. L’entusiasmo, la convinzione con cui sta in scena... Sembra che lo stia facendo per la prima volta. Alla fine siamo tutti stanchi morti, e lui va avanti, dando l’impressione di non aver voglia di smettere, di divertirsi più di noi. Poi mi ha molto emozionato il fatto che, in una scaletta con le canzoni più travolgenti, ha inserito un brano di protesta molto duro come ‘Death to My Hometown’ e ha dedicato ‘The Ghost of Tom Joad’ a una cooperativa di operai di un paese vicino Roma.
A Roma Springsteen ha proposto una dozzina di brani da ‘The River.’ Che effetto fanno oggi queste canzoni scritte 36 anni fa?
‘The River’ rimane uno dei punti più alti della sua storia, un punto fermo importante. Perché c’è dentro tutto l’arco delle possibilità espressive e dei temi esistenziali di Springsteen. E certe cose sembrano appena scritte. Se penso al brano ‘The River’, quando lui dice “c’è poco lavoro a causa dell’economia”, “on account of the economy”:questa [“la relazione schiacciante fra il singolo lavoratore e le forze del mercato che gli sembrano inevitabili, imperscrutabili, ineluttabili”, scrive Portelli] – a me sembra una condizione di gran parte dei lavoratori di oggi. Se si pensa ai tipi di lavoro di cui lui parla (gli addetti agli autolavaggi, alle pompe di benzina, le commesse dei supermercati, i baristi ecc.): questo è il lavoro precario, dequalificato del terzo millennio.
È un fil rouge nel canone springsteeniano: la denuncia dei misfatti dell’‘economia’ la troviamo anche negli album più recenti. Però, al contempo, c’è un’evoluzione.
Per esempio, viene in mente come ci sia consapevolmente un passaggio fra una canzone come ‘My Hometown’ (da ‘Born in the U.S.A’, 1985) – dove dice “questi posti di lavoro sono andati e non torneranno”, ma non dice perché – e una canzone recente come ‘Death to My Hometown’ (da ‘Wrecking Ball’, 2012) – dove sono gli speculatori, i banchieri che senza sparare un colpo, senza bisogno di dichiarare guerra hanno portato la morte e la distruzione nella nostra città. In ‘My Hometown’ assume il punto di vista di coloro che sono pedine nelle mani di forze incomprensibili, in ‘Death to My Hometown’ comincia a denunciare i responsabili; e chiama alla lotta, quando finisce dicendo “manda i magnati rapinatori dritto all’inferno”. ‘Death to My Hometown’ è più astratta, più metaforica rispetto a quel vissuto così pieno che c’è in ‘My Hometown’. È il passaggio dalla rappresentazione dell’esperienza delle vittime all’espressione della consapevolezza di chi sono i responsabili. È il passare dall’individuo al sistema.
Restiamo ai concerti. Lei ha affermato che quelli di Bob Dylan sono «una sfida al pubblico», mentre quelli di Springsteen sono «un rituale di fratellanza».
Il punto è che entrambi sanno benissimo che tu ai concerti non ci vai per ascoltare la musica: ci vai per riconoscerla e partecipare. Allora, Springsteen ti aiuta; Dylan, proprio perché sa che tu sei lì per riconoscere le sue canzoni, te le rende irriconoscibili. Da una parte ciò che fa Dylan è affascinante, dall’altra ti senti preso in giro. Invece con Springsteen ti senti accolto.
Il suo libro: perché il titolo ‘Badlands’?
In realtà io avevo pensato a un titolo molto accademico: ‘A Dream Deferred’, un sogno differito, che è una citazione da una poesia di Langston Hughes. Ma è anche la frase chiave della canzone ‘The River’: un sogno se non si avvera è una menzogna o una maledizione? L’editore però non era d’accordo e ha proposto ‘Badlands’.
È la sua canzone preferita di Springsteen?
Beh, io delle volte dico che la mia canzone preferita di Springsteen è l’ultima che ho sentito. ‘Badlands’ è una canzone a mio avviso rivoluzionaria: non sul piano ideologico, sul piano degli stati d’animo. È una canzone profondamente anticonformista (“non voglio i compromessi”), che riconosce l’inevitabilità del conflitto, che denuncia l’individualismo avido e insaziabile: il povero vuole essere ricco, il ricco vuole essere padrone di tutto... (avendogliela sentita suonare all’Olimpico di Roma, al tempo di Berlusconi, nel 2009, ricordo di aver detto “questa l’ha scritta per lui...”). Poi quest’idea che tu la realtà la impari lavorando sodo, nei campi, sotto il sole, bruciandoti la schiena finché capisci com’è fatto il mondo. E questa cosa, se vogliamo elementare: quando lui dice “niente ritirata, niente resa, continuiamo a batterci finché queste terre maledette non ci tratteranno come si deve”, cioè fino a quando non ci sarà un minimo di eguaglianza e di possibilità di vivere assieme. Fin da ‘Darkness on the Edge of Town’ (1978), Springsteen non dice “mi tratteranno”, ma “ci tratteranno”. È un riscatto collettivo: mi sembra molto importante.
Al Letzigrund di Zurigo ha cantato ‘Jole Blon,’ richiesta dal pubblico...
Che meraviglia! È un classico della musica cajun, che gli arriva forse anche attraverso Jerry Lee Lewis, una delle fonti di Springsteen.
E in questi casi, come con l’album ‘We Shall Overcome: The Seeger Sessions,’ non si tratta di semplici ‘cover,’ vero?
Queste sono canzoni che stanno dentro la tradizione, destinate ad essere cantate da un sacco di gente. Al Circo Massimo, ad esempio, ha cantato un paio di brani di Little Richard. Ma quando li interpreta, non li sta semplicemente rifacendo. Sta riconoscendo una cosa di grande importanza: che il rock and roll, come lui lo pratica, è musica popolare, folk music; è musica tradizionale, e quindi patrimonio collettivo, patrimonio condiviso. Se lui canta ‘Summertime Blues’ di Eddie Cochran, non sta facendo una ‘cover’ di Cochran: sta entrando dentro questa tradizione condivisa di rapporto fra libertà e lavoro. Un sacco di libri su Springsteen lo riconnettono ai grandi filoni della letteratura americana (Emerson, Whitman, Twain eccetera), e anch’io faccio una serie di riferimenti (Fitzgerald, West, O’Connor eccetera). Però, con l’eccezione di Flannery O’Connor, non è che Springsteen – che è una persona intelligente ma non è un intellettuale di mestiere – stia citando o facendo riferimento a questi grandi classici. Semplicemente, sta dentro la stessa realtà, dentro la stessa logica; vive nello stesso Paese e arriva a sentire, a dire le stesse cose per altre strade.
Springsteen è una ‘star’ a tutti gli effetti. Eppure c’è qualcosa in lui che lo distingue da un semplice ‘fenomeno di massa.’ Cosa?
Io credo che dentro la cultura di massa ci sia di tutto. Specialmente negli Stati Uniti, dove non esiste questa separazione tra la cultura ‘seria’ e quella ‘di massa’: la popular music americana noi in Italia l’abbiamo chiamata musica leggera, come per dire che le cose importanti non c’entrano. Una cosa che la cultura di massa negli Stati Uniti invece ha saputo fare in maniera straordinaria è stata quella di essere veicolo dei grandi temi. Penso non solo alla musica, ma anche al cinema. Ricordo un giorno che con Roberto Leydi [il noto etnomusicologo scomparso nel 2003, il cui Fondo è gestito in Ticino dal Centro di dialettologia e di etnografia del Decs, ndr] ascoltavamo dei dischi di musical americani. Lui mi fa: “Ma perché in America c’è il musical e in Italia no?”. E io: “Quelli che in America scrivono grandi musical, in Italia scriverebbero pessime opere”. Non c’è, nella tradizione italiana, la sensazione altrettanto solida che tu puoi dire le cose importanti con mezzi non togati, con mezzi anche umili ma dotati di autorispetto. Questo invece c’è molto nella musica e nel cinema degli Stati Uniti, anche in certa letteratura. Il fatto che il ‘confine’ fra cultura alta, media e bassa è così spesso eroso, attraversato, fa sì che sul piano culturale le gerarchie [negli Stati Uniti] siano molto più fluide.
Viene in mente ‘Sherry Darling.’..
Al concerto del Circo Massimo, Springsteen mi ha fatto sostanzialmente due regali personali. Il primo è stato ‘Tougher than the Rest’ [da ‘Tunnel of Love’, 1987], che rimane secondo me una delle sue canzoni più belle. Il secondo è stato ‘Sherry Darling’ [da ‘The River’, 1980]. ‘Sherry Darling’ è appunto proprio questo: una canzone umile, che nella sua allegria parla di banalità (la macchina, il sole, la spiaggia, la birra eccetera). Ma dentro, senza bisogno di ‘dire’ “guardate che adesso parlo di cose importanti”, Springsteen ci mette la disoccupazione, il ghetto, le generazioni [Portelli: “è un lunedì mattina (siamo già lontani dalla febbre del sabato sera) e prima di andare al mare devono accompagnare la madre della ragazza alla ‘unemployment agency’, l’ufficio di collocamento. L’ufficio di collocamento? Ma quanto spesso capita nel rock di sentir parlare di una cosa del genere, di uffici di collocamento, di disoccupazione, di una normale quotidianità di gente che fatica ad arrivare a fine mese?”]. Si parla di cose importanti, con la leggerezza e la serietà rese possibili dal rock and roll.