Un uomo contro in Piazza Grande
Già Pardo d’onore nel 2003, ieri Ken Loach è tornato con il suo ultimo film. Nei Cineasti del Presente debutto della ‘ticinese’ Klaudia Reynicke, intervista al compositore Howard Shore.
Conosco persone che non mettono più piede in Piazza Grande. I film sono sciatti, dicono, insipidi, imballati e, se tutto va bene, televisivi. Un tramezzino in confezione doppia acquistato al negozio della stazione, di furia, manca poco alla partenza, devi ancora raggiungere il binario sette. La fame si focalizza sul tonno che sbrodola dalle fette di pane bruno, la plastica dura e trasparente ti fa pensare che sia stato preparato con estrema cura, la maionese light, un pizzico di peperoncino. Quando finalmente lo addenti, i chilometri tra te e il negozio sono già dieci. Il gusto è di consuetudine, chimico e frettoloso. Ti senti come uno che cammina a sedici anni per le stradine di Amsterdam, vede le vetrine rosse per la prima volta, crede di potersi innamorare di una di quelle ragazze. Le sedie diventano subito scomode quando il film si trascina e tu non sai dove mettere le gambe, fumi sapendo di dare fastidio, uscire è un’impresa perché hai trenta persone tra te e il primo corridoio salva-vita. Guardi il cielo in cerca di stelle cadenti, ricordi lo svenimento di Frédéric con un sorriso, la gioia di Wenders che riceve il premio e propone il suo film. Il gusto del sottaceto ti accompagnerà fino a mezzanotte. C’è chi, in piazza, ci arriva in autopostale, in coppia, con gli amici di partito. Percorrono il tappeto rosso con la malinconia di chi sa, quel colore, una volta. Dietro di loro passa l’uomo agli altri ed a sé stesso amico, le gambe corte, una macchina da voti, il petto che fa concorrenza con l’ampiezza dello schermo. La pellicola è di quelle che fanno riflettere, due ragazze irretite dal grande babau decidono di lasciare la Francia per conquistarsi la salvezza in Siria, il mondo sta finendo, il cinema è parte della grande distrazione di massa. A fine proiezione batte le mani, convinto come quasi tutti, la bimba di Nizza negli occhi, il senso d’impotenza che svanisce solo quando c’è da raddoppiare il San Gottardo. L’occhio della cinepresa rompe le attese già dalle nove. Inquadra donne che si tuffano nella rivista patinata, la Sandrelli in copertina a promettere canzoni e leggerezza; alcuni, mi raccontano, si vede che vogliono essere scaraventati sul telo gigante, forse vengono apposta, per vedere se sul serio, come diceva quello là, la vita vera ha solo due dimensioni. Altri, più di quel che si crede, conoscono il valore dell’anonimato, fissano il vuoto in attesa che la luce lo oltrepassi. Ieri sera, però, un giovane quarantenne dalla barba malfatta, la camicia firmata e lo sguardo di chi ha comperato la giornaliera e allora tanto vale andare anche in piazza, ha rimesso in discussione tutte le sue certezze. L’occhio del maestro di cerimonie aveva sostato su di lui, forse perché, a differenza della ragazza con gli occhiali, infermiera a domicilio per anziani che non hanno voglia di finire in un centro di raccolta, si era portato un libro di Zweig, per vedere l’abisso che c’è. Tra arte e biopic tutti i gusti. Qualche ora dopo, in una strada poco più su, li ho visti che si sorridevano, indicavano, riconoscevano. Forse hanno preso le vie del pardo, dopo un bicchiere di vino tedesco. Loro due, ne sono quasi sicuro, non diranno più che il cinema è solo divertimento.