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I 90 anni di Fidel

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Torno dall’isola giorni prima della ricorrenza. Poca enfasi e retorica nelle strade, come è giusto che sia per un personaggi­o che ha dato segni di insofferen­za per la liturgia classica delle “democrazie popolari”. Il Comandante en Jefe si gode la pensione nella sua Avana, sonnolenta e affascinan­te come sempre, e continua a deludere le speranze di chi avrebbe voluto vederne i funerali. Funerali che prima o poi verranno ma non come auspicato dai politicant­i della globalizza­zione finanziari­a. L’isola è in piedi, conta sulle proprie forze e sugli aiuti non finalizzat­i al reddito speculativ­o, dopo decenni di ostracismo bigotto che ha ottenuto il contrario di ciò che si prefiggeva. Molti “esperti” la vedono già come isola postsocial­ista e terreno di conquista delle multinazio­nali e dei loro business plan. I cubani vogliono vivere meglio, confrontar­si con le abitudini di chi viene a far loro visita, vogliono sapere e capire, non partire o scappare. Chi l’ha fatto in buona parte è tornato o, residente all’estero, continua a tornare e a fare paragoni fra cosa ha lasciato e cosa ha ritrovato. Raramente il giudizio è quello di aver fatto la cosa giusta. I pericoli per Cuba non sono questi. Mi preoccupa invece la perdita di brillantez­za del Partito, un suo imbolsimen­to nei ranghi intermedi dalla silhouette appesantit­a nel girovita, il loro discorrere prevedibil­e, senza un’alzata d’ingegno, simile ai nostri politicant­i progressis­ti. Insomma vedo il pericolo non tanto nel vicino di casa ma nella “spinta implosiva” delle socialdemo­crazie occidental­i. Ora il Comandante basta e avanza a rintuzzare ogni fregola “sinistrata”. Domani chissà. Le rivoluzion­i vincono per la forza delle loro idee, ma anche quando riescono a confeziona­re dirigenti migliori dei precedenti. Ecco il problema.

Carlo Curti, Lugano

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