I trogloditi, noi
“Questione di punti di vista”. In tanti l’avranno detto almeno una volta, qualcuno forse con l’intima consapevolezza che cedere a simili frasi fatte è sempre il preludio a una sconfitta. Eppure, se in ogni luogo comune c’è un seme di verità, il punto di vista continua a fare la differenza. Forse molti umani pallidi del terzo millennio, esportatori di libertà e di consumi, si considerano a giusto titolo gli esseri più evoluti comparsi su questo pianeta. Ma poi, una donna che sceglie di indossare il velo è da considerarsi meno evoluta di una che mostra il didietro in un reality show? Dove sta la libera scelta autodeterminante? E un indigeno del Borneo che non maneggia utensili di plastica, crede allo spirito degli alberi e vive senza bruciare il triplo delle risorse disponibili in natura, è da considerarsi più sprovveduto di noi? Probabilmente, mutando punto di vista, un giorno toccherà a noi il ruolo dei primitivi. E magari gli umani del futuro si vergogneranno un po’ dei loro antenati, noi. Che, investiti da una rivoluzione epocale, muoviamo goffi i primi passi in questo universo digitale-virtuale; e a posteriori saremo forse visti come il “selvaggio” che scopre per la prima volta l’inquietante presenza di una bottiglia di plastica, solo che lui la usa facendo molti meno danni di noi con un evoluto tablet in mano. Ogni epoca ha avuto il suo popolino di malvagi; integrati, irreprensibili, silenziosi, banali. Dai gaudenti incitatori alla morte del gladiatore sconfitto ai castigatori di streghe, dai compiaciuti spettatori dei supplizi altrui ai delatori di ebrei e nemici del popolo, fino ai sodali dei bulli di paese, la Storia è piena di piccoli, oscuri, impuniti assassini. Ma pure di macchiette che semplicemente non sanno ciò che fanno e che, prima di essere perdonate, vanno rese per quanto possibile inoffensive. A tutti questi, che nascondano la propria vergogna dietro un nickname o esibiscano con orgoglio la propria bassezza, il nostro tempo ha dato uno strumento meraviglioso quanto terribile, trasformandoli in indefessi esternatori di pollici alti e pollici versi, in instancabili “postatori” di vacuità, se non di meschinità con cui colpire una vittima designata, a volte ignota allo stesso aggressore, inconsapevole e colpevole. Il cyberbullismo purtroppo non ha età. Lo dimostrano alcuni casi recenti, come quella donna arrivata a togliersi la vita dopo aver incassato per mesi sfottò e ingiurie (da adulti desolatamente privi di qualcosa di meglio da fare) a causa di alcuni video intimi finiti in rete. Ma ad essere più toccati da questa emergenza sono i più giovani, più esposti al giudizio del prossimo così come alla legge del gruppo. È successo e succede anche in Ticino, dove un piccolo film, ispirato da un fatto reale, un anno fa ha raccontato come questo circolo vizioso possa portare alle conseguenze più tragiche. E dove aumentano i casi di adolescenti ritirati, che rinunciano ad andare a scuola, a uscire, a vivere. Sul limitare di terre sconosciute, dobbiamo ancora sviluppare una grammatica di base con cui interpretare questo nuovo mondo; a livello familiare, formativo e istituzionale (con leggi forse più chiare e incisive). Una grammatica fondata sì sulla conoscenza degli strumenti che maneggiamo, ma che rimetta al centro una cultura del buon senso e del rispetto del prossimo, essere reale; con cui per altro prevenire o almeno disinnescare i cattivi esempi che spesso arrivano dagli adulti, magari con responsabilità istituzionali, inconsapevoli non solo di ciò che scrivono ma del mezzo con cui lo fanno. Del resto, un boscimane al quale venisse offerta l’opportunità di Internet, la userebbe così?