La lavanderia a gettoni
Blog: gianlucaweast.blogspot.com Twitter: @gianlucaweast
Quei pochi nomi che ci lascia fare la guerra, facciamoli. Jeroen Oerlemans, morto a Sirte, Libia, il 2 ottobre scorso. Quello che si sa è che è stato colpito da un proiettile. Dicono che indossasse il giubbotto antiproiettili e che la pallottola sia entrata lateralmente, penetrando un fianco. Jeroen stava scattando fotografie. Era un fotoreporter olandese. Stava lavorando nella zona della città chiamata Water Tank: il serbatoio dell’acqua. Una cisterna, come ce ne sono ovunque nelle città che assomigliano a Sirte. Water Tank è attualmente la zona più pericolosa, con i miliziani libici che si scontrano con quelli dell’Isis, quelli ancora rimasti. Ma quanti sono? Non li stanno bombardando da mesi, gli americani? E i miliziani libici? Cosa fanno? Cosa hanno ottenuto? Non stanno sparando addosso all’Isis, anch’essi, da mesi, così, come viene viene: una roulette russa collettiva?
C’è chi sostiene che un fotoreporter impallinato da un cecchino se l’è andata a cercare. Jeroen, addirittura, era già stato rapito in Siria. L’aveva scampata bella. Non questa volta. Uno sposato con figli non va a cercarsela: va e basta. Credo che la domanda giusta sia: perché ci è andato, perché ci andava ancora? Scusa, ma: perché uno va al mare, va a giocare a calcio, va in bicicletta, va a correre, va a cena fuori, va a ballare? Perché uno va a letto presto? E un’altra va in palestra? Il leggendario fotoreporter britannico Don McCullin, in un documentario dedicato al suo lavoro, conclude che la guerra è una follia e non vale la pena rischiare per mostrarla. Alla sua età può permettersi di dirlo. Jeroen aveva 46 anni. Un po’ presto per rinunciare a tutte le cose che non valgono la pena.
C’è chi sostiene che anche i civili dentro una guerra se la sono andata a cercare. Lo dice in relazione alle guerre in corso, e sappiamo quali sono. È un modo per non doverci pensare. Comprensibile. Con tutte le cose alle quali dobbiamo pensare, se ci aggiungessimo la vita degli altri, hai voglia: faremmo mattina ogni giorno. Però, quando c’è il nome, è una cosa diversa. Il nome ti costringe a pensarci, almeno un po’, ti costringe magari a dare un’occhiata su internet, a cliccare la notizia. Un nome ce l’abbiamo tutti. I civili morti in guerra non li ricorda nessuno, se non finiscono su qualche lapide o muro della memoria. Ci finiscono in pochi. Fare il nome di un fotoreporter occidentale ucciso in Libia non è pensare a lui trascurando tutti i poveri cristi civili morti prima e dopo. È un modo per chiedere che venga fatto anche il loro nome. Pensa se ogni giorno la radio leggesse i nomi dei civili morti il giorno prima nella guerra di Siria. Cambieremmo stazione? Non credo. Staremmo ad ascoltare. E quei nomi ci darebbero la reale misura di ciò che sta accadendo. In Siria, certo. Ma è un esempio soltanto. Attenzione: non è una predica. Perché allora dovremmo farla prima a quelli che, in Siria e altrove, si stanno ancora sparando. Che se l’ascoltassero loro, per primi, questa ipotetica stazione radiofonica che trasmette, ogni giorno, i morti del giorno prima. Non i nomi dei combattenti, come succede in alcuni posti del mondo. No: i nomi dei civili. Chissà che effetto farebbe? Spalancherebbe i loro occhi su ciò che stanno facendo. Tutti quanti. E proverebbero, insieme a una violenta vertigine, vergogna.
Sono andato a verificare: quando i primi guerriglieri dell’allora Esercito siriano libero entrarono ad Aleppo, scrissi: “Avranno chiesto alla popolazione di questa città il permesso di trasformarla in un campo di battaglia?”. È una domanda, ci vuole niente a farla. Eppure: era la sola che andava fatta. I giovani combattenti avevano il sangue pieno di entusiasmo e ottimismo: la guerra l’avrebbero vinta in poco tempo, con l’aiuto dell’Occidente. Guarda oggi. Chi glielo fa fare? Glielo fa fare la guerra. Una volta che ci sei dentro, è dura uscirne. I cosiddetti attori esterni non fanno altro che alimentare, con soldi e promesse e un sacco di bugie e infinite manipolazioni, la bugia più grande che la guerra vomita: che non esiste più nulla al di fuori di essa, nulla per cui valga la pena vivere e nulla per cui valga la pena morire. Fare i nomi dei morti: è il solo modo per smascherare la guerra, per inchiodarla. Per smontare la sua menzogna.
Ora, concesso che non saranno granché, questi pensieri sono venuti fuori in una lavanderia a gettone, altrimenti detta self service. La gente? Basta chiederle di raccontare. Certo, va instradata. “Raccontami la tua vita” è solitamente un buon inizio. Quante volte ce lo siamo sentiti chiedere? Mai? Una volta? E quella volta, come ci siamo sentiti? E: come abbiamo reagito? Ci è presa una voglia di raccontarla davvero e abbiamo risposto: “Va bene”. Sbaglierebbe chi pensasse a racconti senza fine. Non è così. Quasi sempre (le eccezioni esistono) ne escono racconti piuttosto brevi, come se il loro autore o la loro autrice nell’andare in profondità non avvertisse più la necessità di allargarsi. Sono racconti disseminati di nomi: fratelli, sorelle, genitori, amori, incontri, colleghi, cose lette o vissute o osservate. Ciascun nome racchiude un incontro, avvenuto o magari soltanto auspicato. Nomi che attraverso il racconto tornano a essere presenze. Nomi che recuperano così la loro funzione originaria. Essere chiamato per nome significa esserci. Un nome richiama (materializza) chi lo porta: in senso temporale, ma anche spaziale.
Strani posti, le lavanderie a gettoni: molto spesso perfettamente silenziose, a parte il ronzio delle lavatrici. In realtà, non attendono altro che di diventare ciò che in realtà già sono: zone franche del racconto. Chi, con aria annoiata, sembra aspettare la fine del lavaggio o dell’asciugatura, in realtà non aspetta altro che di raccontarsi. Serve soltanto una spinta. Poca cosa. “Raccontami la tua vita”. È impossibile prevedere cosa ne verrà fuori. Succede che si finisca col parlare di un fotogiornalista ucciso a Sirte. “Come si chiamava?”. Jeroen Oerlemans. Che nome strano. Eh sì, strano davvero. Era olandese. Un racconto può portare ovunque. Succede, ancora, che salti fuori la storia dei nomi: che bisognerebbe fare il nome dei civili ammazzati nelle guerre. Succede che salti fuori, questa idea, dal racconto che una persona ha accettato di fare della sua vita: che con la guerra e con i paesi in guerra non ha nulla a che fare. Eppure, vedi un po’, si è finto col parlare proprio di questo. Non capita tutti i giorni di trovare qualcuno disposto ad ascoltare il racconto della vita di un’altra persona. Quando capita, fa piacere, anche se non tutte le cose da raccontare sono belle. È la vita, no? Nel raccontarla, andiamo vicini ad altre vite, le incrociamo. Non ci saremmo mai creduti capaci di farlo. Eppure è così. Nel suo essere raccontata, la vita si sente finalmente libera di vivere.
Cosa c’entra tutto questo con la guerra? Niente. O forse c’entra, vuoi vedere? Fare il nome di un fotoreporter ammazzato a Sirte, fare il nome dei civili morti sotto le bombe o colpiti dai cecchini, chiedere a qualcuno incontrato in una lavanderia a gettoni di raccontare la sua vita e stare ad ascoltarla. Sono forme di resistenza. Resistenza? Sì: nei confronti dell’accadere del mondo. Cioè: non dell’accadere in sé. Resistenza, invece, nei confronti della possibilità che questo accadere non significhi più nulla. Per noi e per gli altri. Non c’è come chiedere a qualcuno di raccontarci la sua vita, per darle valore. Non c’è come sentircelo chiedere per capire che la nostra vita ha un valore, magari per una volta diverso da quello che siamo abituati a darle. Non c’è come pronunciare i nomi dei poveri cristi fatti fuori dalle guerre, di un povero fotoreporter fatto fuori da una guerra. Non c’è come farli, questi nomi, per resistere alla tentazione di credere che è uguale, farli o non farli. Non è uguale.