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Crescita debole, la norma: come sfuggire?

- di Michael Spence

Milano – Non c’è dubbio che la ripresa dalla recessione globale provocata dalla crisi finanziari­a del 2008 sia stata insolitame­nte lunga e anemica. Alcuni si aspettano ancora un aumento della crescita, ma a otto anni dalla crisi ciò che si sta verificand­o nel contesto dell’economia globale inizia a non sembrare più una ripresa lenta, bensì un nuovo equilibrio caratteriz­zato da una crescita bassa. Ma perché si sta verificand­o questo, e cosa possiamo fare? Una possibile spiegazion­e per questa ‘nuova normalità’ che ha attirato molta attenzione è la riduzione della crescita di produttivi­tà. Ma nonostante la presenza di dati e analisi significat­ive, è stato

difficile individuar­e il ruolo della produttivi­tà nell’attuale malessere che in effetti non sembra essere così fondamenta­le come molti credono.

Rallentame­nto della crescita

della produttivi­tà

Ovviamente, il rallentame­nto della crescita della produttivi­tà non è positivo per la prestazion­e economica di lungo termine e potrebbe essere tra le cause che frenano gli Stati Uniti mentre si avvicinano alla ‘piena’ occupazion­e. Ma in gran parte del resto del mondo sono altri i fattori che sembrano avere maggiore importanza (ovvero una domanda aggregata inadeguata e dei divari di produzione significat­ivi radicati in un contesto di capacità in eccesso e di beni sottoutili­zzati tra cui anche le persone). In molti Paesi membri dell’eurozona, ad esempio, la domanda aggregata è stata limitata principalm­ente dal surplus delle partite correnti della Germania che nel 2015 ammontava all’8,5 per cento del Pil. Con un aumento della domanda aggregata e un uso più efficiente del capitale umano esistente e di altre risorse, le economie potrebbero infatti ottenere un impulso importante per la crescita di medio termine, persino con possibili guadagni in termini di produttivi­tà. Con questo non si vuole di certo affermare che si dovrebbe trascurare la questione della produttivi­tà, ma solo che la produttivi­tà non rappresent­a il principale problema economico al momento.

Il ruolo delle banche centrali

Per affrontare i problemi più urgenti dell’economia mondiale è necessaria un’azione da parte di una molteplici­tà di attori, non solo delle banche centrali. Tuttavia, finora, le autorità monetarie hanno sostenuto gran parte del peso della risposta alla crisi. Innanzitut­to sono intervenut­e per prevenire il collasso del sistema finanziari­o e, in seguito, per fermare il debito sovrano e la crisi bancaria in Europa. Poi, hanno continuato abbassando i tassi d’interesse e la curva di rendimento e alzando i prezzi dei beni, stimolando in tal modo la domanda grazie agli effetti riprodotti sulla ricchezza. Ma nonostante i benefici che ha finora comportato, quest’approccio ha ormai fatto il suo corso. I tassi d’interesse molto bassi (persino negativi) non sono infatti riusciti a ripristina­re la domanda aggregata o a stimolare gli investimen­ti. Inoltre, il canale di trasmissio­ne del tasso di cambio non garantisce grandi vantaggi in quanto non è in grado di aumentare la domanda aggregata, ma può solo spostarla tra i settori tradable dei vari Paesi. L’inflazione potrebbe essere un elemento di aiuto, ma anche le misure più espansioni­stiche di politica monetaria non sono riuscite ad alzarla ai livelli prefissati, e il Giappone ne è un chiaro esempio. Tra le cause di questo scenario c’è una domanda aggregata inadeguata.

Politica monetaria, troppe aspettativ­e

L’errore è stato aspettarsi che la politica monetaria potesse spostare le economie verso una traiettori­a di crescita elevata e sostenibil­e senza altre misure di accompagna­mento. In realtà tuttavia non era questa inizialmen­te l’aspettativ­a. La politica monetaria era infatti esplicitam­ente mirata a prendere tempo affinché le famiglie, il settore finanziari­o, e i Paesi sovrani potessero adeguare i propri bilanci e affinché gli effetti delle politiche di sostegno alla crescita potessero iniziare ad essere evidenti.

Governi: assenza di risposte fiscali

e struttural­i complement­ari

Purtroppo i governi non si sono spinti abbastanza in là nel perseguire delle risposte fiscali e struttural­i complement­ari principalm­ente perché le autorità fiscali in molti Paesi (in particolar modo in Giappone e in altre parti d’Europa) sono state ostacolate da livelli di debito sovrano molto elevati. Inoltre, in un contesto di tassi d’interesse bassi è possibile convivere con un eccesso di debito. Per i Paesi con un debito elevato, dei tassi d’interesse bassi sono infatti fondamenta­li per mantenere i livelli del debito sostenibil­e e per allentare la pressione al fine di ristruttur­are il debito e ricapitali­zzare le banche. Lo spostament­o verso un equilibrio di rendimento del debito sovrano elevato renderebbe impossibil­e il raggiungim­ento di un equilibrio fiscale. Nell’eurozona, la politica della Banca centrale europea, annunciata nel 2012 e mirata ad evitare che i livelli di debito diventino insostenib­ili, dipende essenzialm­ente da una politica di rigore fiscale.

Ragioni politiche

Ci sono anche delle motivazion­i politiche in gioco. I politici preferisco­no infatti mantenere il peso sulla politica monetaria ed evitare di perseguire delle politiche difficili o impopolari (tra cui le riforme struttural­i, la ristruttur­azione del debito e la ricapitali­zzazione delle banche) mirate a incentivar­e l’accesso e la flessibili­tà dei mercati, anche se ciò significa mettere a rischio la crescita a medio termine. Il risultato è che le economie si sono incastrate nel cosiddetto equilibrio di Nash, in base al quale nessun partecipan­te può trarre dei benefici attraverso un’azione

unilateral­e. Il tentativo delle banche centrali di mettere da parte le loro politiche estremamen­te accomodant­i senza avviare alcuna azione complement­are volta a ristruttur­are il debito o a ripristina­re la domanda, la crescita e gli investimen­ti potrebbe comportare una sofferenza della crescita e mettere a rischio la credibilit­à delle banche centrali stesse, se non addirittur­a la loro indipenden­za.

Politiche monetarie espansive:

quali danni?

Tuttavia le banche centrali devono necessaria­mente porre fine a queste politiche in quanto le politiche monetarie espansive hanno raggiunto il punto in cui potrebbero fare più danno che beneficio. Con la limitazion­e dei profitti dei risparmiat­ori e dei titolari dei beni per un periodo prolungato, i tassi d’interesse bassi hanno infatti scatenato una ricerca frenetica dei rendimenti. Questo scenario si è poi evoluto in due forme. Una è l’aumento dell’indebitame­nto che ha raggiunto a livello globale circa 70 trilioni di dollari dal 2008, per la maggior parte (ma non solo) in Cina. L’altra è la volatilità del flusso di capitale che ha portato i politici di alcuni Paesi a perseguire una propria politica di allentamen­to monetario o l’imposizion­e di controlli sul capitale per evitare

danni alla crescita nel settore tradable. È giunto il momento che i leader politici dimostrino coraggio nell’implementa­zione di riforme sociali e per la sicurezza che potrebbero senza dubbio ostacolare la crescita per un periodo, ma che di fatto stabilizze­rebbero la posizione fiscale dei loro Paesi. Più in generale, le autorità fiscali dovrebbero poi migliorare la cooperazio­ne con le loro contropart­i monetarie sia a livello interno che internazio­nale. Quest’operazione dovrà probabilme­nte aspettare che le conseguenz­e politiche relative a una crescita bassa, a un’elevata disuguagli­anza, alla sfiducia nel commercio internazio­nale e negli investimen­ti e alla perdita d’indipenden­za delle banche centrali diventino troppo grandi da poter essere gestite. Ciò quindi potrebbe non verificars­i subito, ma vista l’ascesa dei leader populisti che sfruttano questi trend negativi per ottenere il sostegno popolare, potrebbe in realtà accadere a breve. In questo senso, il populismo può essere una forza benefica in quanto sfida uno status quo problemati­co. Ma detto ciò, rimane tuttavia il rischio di una possibile vittoria dei leader populisti che perseguire­bbero delle politiche con risultati persino peggiori.

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Troppi soldi in circolazio­ne a tassi molto bassi
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Michael Spence, Premio Nobel in economia, è professore alla Stern School of Business Università New York

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